I giovani europei, malgrado le loro conoscenze coltivate come non mai, rimangono disoccupati o molto precarizzati. “Senza un vero futuro a breve termine”, come si dice spesso, hanno generalmente una visione se non ostile almeno lontana dall’impresa.

Si parla spesso dei giovani che sono per una buona metà disoccupati e per una piccola altra, comunque molto impressionante, ben precarizzati. In effetti non c’è possibilità di offrir loro del lavoro a causa del fatto che non c’è abbastanza domanda di prodotti e di servizi nei mercati dei diversi Paesi: la denatalità molto spinta delle due ultime generazioni (tasso del 1,2 o 1,3!) ne ha fatto crollare la domanda interna. L’Occidente, con i suoi comportamenti nichilisti e pseudo edonisti, non si è nemmeno accorto di essere responsabile della sua progressiva penuria. Tutto è cominciato, e continuato, con la priorità o l’opposizione della piccola legge pseudo umana, sedicente razionale (in realtà, molto razionalistica!), contraria a quella grandiosa e misteriosa di Dio. Peraltro, quella della Sua naturalità. Il quasi miliardo e mezzo di culle rimaste vuote ha provocato la crisi endemica di difetto progressivo del lavoro. A questa tragedia conseguente e quasi impercettibile (al punto che la mentalità modernista non ne è ancora cosciente), si deve aggiungere il dramma assurdo dei debiti pubblici che hanno ulteriormente ipotecato il futuro degli attuali giovani ad un livello di vita ben inferiore a quello dei loro genitori. Come allora parlare del futuro di questi giovani senza prima fissare i concetti di denatalità e di debiti statalisti?  Si tratta qui di peccati capitali e tra i più immorali delle generazioni adulte, alle quali appartengo inevitabilmente e oggettivamente, malgrado le mie desolidarizzazioni personali e reiterate. I miei congeneri hanno voluto vivere al di sopra dei loro mezzi e sul gobbone dei loro figli e nipoti!

Ma l’eredità forse ancora più pesante è quella sul piano culturale. A queste due generazioni di figli maggioritariamente e mediamente unici, gli adulti hanno lasciato una ideologia perversa di utilitarismo conseguentemente parassitario. Il molto debole interesse per l’azione imprenditoriale già a partire dagli anni ‘50-’60 s’è visto aggiungere una cultura detta a-capitalista o anti-capitalista. Diventare imprenditore è attualmente l’ultima delle preoccupazioni di un giovane; quando questi non coltivi un atteggiamento ostile che si cristallizza contro la creazione stessa d’impresa come idea produttiva del lavoro. Alla prima fila di ogni manifestazione europea in piazza da parte dei sindacati, si trovano sempre – contro i loro stessi interessi strutturali  – i giovani studenti. Si direbbe anche che la teleologia della parola lavoro sia diventata quella di subordinazione: si cerca solo a diventare impiegati o operai subordinati, inevitabilmente ben pagati e trattati indipendentemente dal valore della loro produzione e della loro produttività. L’idea di divenire invece imprenditori attivi, ancor più che scartata, non è generalmente nemmeno  –  in sovrappiù  –  immaginata. A forziori, non si pensa neppure all’idea galattica di creare del lavoro per altri! E pertanto, mai come oggi e da un punto di vista anche educativo, si dovrebbe porre la possibilità di intraprendere come prima opzione metodologicamente da esaminare. Naturalmente, sicccome la maggior parte dei giovani , sembra, non dispongano delle qualità carismatiche o delle condizioni fattuali proprie all’imprenditore attivo, finiscono per ripiegare e diventare impiegati o operai subordinati (in Belgio, per esempio, i due statuti coincidono già). Ma in questo caso, essi non potranno essere  – come si dice impropriamente  – né a-capitalisti né anticapitalisti: la loro esperienza personale avrà così loro evitato di cadere nell’assurda e immotivata ideologia politicista corrente antimprenditoriale.

Anche da un punto di vista ontologico, vale a dire secondo le leggi naturali e intrinseche all’umano, l’opzione di totale gratuità vocazionale per diventare imprenditore dovrebbe esse sempre seguita. La ricerca della libertà, primo obiettivo prioritariamente a perseguire e salvaguardare, esige questa scelta. La possibiltà di ottenerlo costituisce sistematicamente il percorso educativo per il rispetto e la gerarchizzazione dei valori del lavoro universale: dalla sua concezione come cooperazione con il Creatore fino alle sue regole comportamentali. Dagli anni ’80, vale a dire dal best seller della coppia matrimoniale inglese Gifford e Pinchot, che hanno creato il neologismo intraprenditore, i non dotati del supposto carisma speciale per i fondatori ma pronti a diventarlo   –  nel tempo  –  sotto la guida pedagogica di un imprenditore confermato, una nuova possibilità (in realtà molto antica) di accesso alla creazione d’impresa si è aperta. Si tratta della modalità classica della trasmissione del sapere e del saper fare con i quali si tramanda l’idea della creazione e del rinnovamento dei prodotti, come pure della loro produzione. Nel Medio Evo e nel Rinascimento, per esempio, c’erano le Corporazioni (non nel senso degenerato attuale) e le Botteghe professionali. Nella mia impresa, messa sotto il segno contemporaneo del franchising glocalizzato delle sue agenzie nel mondo intero (secondo il neologismo californiano ottenuto dalla fusione delle due parole chiave della nostra epoca, globalizzazione e localizzazione), questa idea classica dell’intraprenditorialità è attualizzata. Ma i giovani di oggi, credendosi già molto creativi, sono quasi totalmente sordi o impermeabili a questa visione di fornirsi del proprio lavoro, in ogni campo, e di crearne per altri. E, pertanto, mai si è avuta tanta necessità per la creazione di nuove imprese. Quelle del dopo crisi.

Laisser un commentaire