Mai subordinati, laboriosamente liberi. (Novella)

 

 

 

– Cara Juliette, è proprio un bel ragazzo. Capelli neri e quasi riccioluti con occhi però chiari, un po’ come i miei ma con tonalità verde. Ben rasato, forse due volte al giorno come scriveva Nabokov del suo protagonista in Lolita, ricordi? Si chiama Roberto, non molto alto ma un bel fusto. Fa il giardiniere con un pick-up ma ha anche una 4×4 con cui scorazza la sera. Piuttosto dalle parti del primo entroterra, generalmente in due o tre ristoranti in collina dove – dice – “il mare, sempre in vista, è silenzioso”. Non ha seguìto l’esempio di suo padre, un pubblicitario di una agenzia di Ancona in declino. Il quale, i venerdì, non lavora in ufficio. Si è messo a disposizione di suo figlio nella ditta che sta montando, da più di un anno, con un suo amico di scuola. Di nome, questi, Matteo, perito agrario, è  sposato con un bebè. La mia prima impressione su di lui è buona. L’équipe è completata da un giovane apprendista leggermente handicappato mentale ma docile e felice di lavorare. Roberto è sempre “irrimediabilmente” single. Jessica, sai la mia amica del fitness, sua ex per più di sei mesi, me ne ha parlato più volte come di un “incostante, apparentemente distratto ma a tratti sorprendentemente profondo e quasi misterioso”. In realtà, mi pare che non lo abbia capito molto o conosciuto veramente. Anch’io non conosco bene la loro storia. Mi ragguaglio e te ne parlerò non appena verrò a Bruxelles. Forse tra tre settimane alla riunione del Comitato europeo per la Famiglia, per il programma dell’anno prossimo.

Un caro abbraccio. Franca.

– Cara Franca, mi hai messa in curiosità. Ti telefono questa sera. Anche se so che esci con lui da solo qualche settimana, senz’altro hai molte cose da dirmi. Non mi raccontare però che questa sua aria svagata da arrampicato sugli alberi da tagliare o decorare, non è quella che ti ha subito affascinata!

A stasera. Juliette.

– Figurati Juliette che all’inizio ero interessata a lui per la storia di suo padre che gli aveva fatto il regalo di due giorni per settimana, il venerdì e il sabato, per aiutarlo nel lancio della sua ditta di “architetture di giardini e piscine”. Ora che gli affari funzionano già bene, il vecchio continua come il primo giorno. Pare anche rinato, a quanto mi dicono: il suo baricentro professionale è ora piuttosto situato “nella terra e nella bellezza delle sue  relazioni”, come ripete.
– All’”inizio” dici…
– Beh, poi lui – convinto di aver preso l’iniziativa – ha cominciato a farmi la corte…
– Ho capito, sei tu che hai deciso tutto.
– Beh sì, lo sai bene che siam sempre noi a combinare veramente. Occhio che c’è una galleria, se cade la linea ti richiamo. Sto andando a prenderlo per una festicciola con i miei amici a Falconara Marittima. Si trova ora su un cantiere, una bella villona con piscina, dove stanno quasi finendo di srotolare l’erba su tutto il futuro prato. Suo padre si occuperà delle rifiniture col socio Matteo la settimana prossima (ha preso le sue ferie) e farà le foto del tutto ben finito per il book pubblicitario: lui se ne occupa, come tu immagini, molto bene… A proposito di foto, ti spedisco domani quelle di stasera. Ciao. Au revoir.

 

 

 

Non solo al telefono, nel raccontarsi sono inesauribili: contrariamente ai maschi, le conversazioni tra ragazze s’inanellano in una sorta di tela dall’aria pressoché infinita dove la minuziosità dei dettagli impedisce praticamente e in genere l’inserzione pesante di ideologia. Quella che abitualmente rende alquanto artificiosa e poco praticabile la relazionalità continua detta virile. La semplice e naturale autenticità sororale rende i rapporti femminili molto più immediati e sviluppabili di quelli maschili. Questi sono, generalmente, di parecchio più rigidi e classificabili in ridotti schemi stereotipati. La cinica e crudele competitività “imposta” dalla società di massa al cosiddetto statuto maschile è molto invasiva e determinante su molti piani.
Franca, nella seratina amichevolmente estiva di piccola e spensierata allegria da fine stagione, aveva ancora una volta raccolto un discreto successo sia tra le amiche che presso i ragazzi. Lei lo ripeteva spesso: fiera del suo nome che – a suo indiscutibile parere – la situava direttamente nelle sue tre accezioni più vantaggiose, svolazzava nella piccola festa con una bellezza accuratamente modesta, ma evidente della sua presenza, a tutti perdipiù simpatica. Appariva esplicitamente schietta, franca, libera nel senso latino della parola (come i francesi ai tempi di Cesare). E munifica, vale a dire avvalorata dal possesso di denaro abbondantemente ben guadagnato presso una filiale multinazionale come responsabile delle relazioni commerciali e pubbliche. Ai soldi, al “franchino” come diceva lei, attribuiva una molto impegnativa valenza, con un’apparentemente trascurata ma sorvegliata importanza. Insomma, una tranquilla bellezza minervina, appagata di essere donna moderna di successo ma tradizionalmente fondata. Il giardiniere Roberto, forse segretamente cosciente di cotanta pienezza naturale e relazionalmente compiuta (tutta costruita), non aveva più l’aria accanto al piccolo portento di eterno femminino, del proprio alquanto stereotipo da seduttore impenitente. Malgrado la dimensione già saldamente imprenditoriale della sua attività antintellettualista di facitore di bei giardini conviviali, di fianco alla saettante Franca aveva l’aria come di dover quasi sparire per lasciarle maestosamente la ribalta. Anzi di preparargliela.

 

 

 

In quasi tutta la sua adolescenza, Franca aveva ben coltivato una sorta di autostima identitaria che, progressivamente, si era costituita rispetto e in segreta competizione soprattutto con le sue amiche di scuola. E non solo. L’immagine riflessa del successo presso i ragazzi, l’aveva di gran lunga considerata inferiore a quella che lei stessa si stava forgiando meticolosamente giorno dopo giorno. Siccome non poteva contare su una bellezza fisica mozzafiato – al di sotto della quale la sua altezza vitale si sentiva pure sminuita – doveva puntare molto su cultura, personalità e preparazione professionale. Cioè, su una concezione esistenziale libera da false ideologie, su un’approfondita introspezione psicologica nelle relazioni e, infine, su un multilinguismo anche antropologico e culturale. Non pensava di meno. Naturalmente questa tripla coscienza di sé non le era innata o gratuitamente  preesistente, nemmeno in famiglia. Anzi, dovette conquistarsela in più di una decina d’anni di ricerca, spesso tortuosamente acquisita. Già al liceo si mise a studiare il tedesco in modo, lei diceva, “fanatico”. Siccome era la lingua considerata più difficile e ostica, la privilegiò con un imperativo categorico all’inizio completamente astratto: quello della malamente denominata “ideologia tedesca” dove l’ambigua parola ideologia – lo scoprì poi – avrebbe dovuto essere almeno sostituita da “filosofia”… Continuò poi ad amarla con piacere nella struttura stessa della sua morfologia linguistica: ogni parola composta esprimeva, non solo per lei, con precisione millimetrica il concetto esatto, il significante preciso e non approssimativo che si voleva esprimere. Non a caso Heidegger, il più grande filosofo molto germanico del novecento, arrivò a dichiarare che “solo con due lingue, il greco e il tedesco, si può filosofare seriamente”. Certo, Franca non filosofeggiava di sicuro, anzi era molto lontana dall’attrazione teoretica delle formulazioni, ma amava oramai indispensabilmente il ragionare “loico”, conseguente, ragionevole e fondato sulla razionalità del pensiero almeno sintetico e coerente.

 

 

 

 

A dire il vero, a metterla su questa strada di fondo era stata, forse anche un po’ involontariamente, sua madre. Milanese, anzi ambrosiana di lunga origine familiare – non come suo marito e padre di Franca, marchigiano dell’Italia centrale pontificia – decise che la sua primogenita (poi si sarebbe potuto anche vedere) non dovesse essere battezzata alla nascita. Lo sarebbe stata, “secondo il volere di Dio e di sua figlia stessa, all’età – pensava e diceva – secondo la tradizione di sant’Ambrogio. Il quale faceva seguire ai suoi catecumeni adulti, generalmente giovani adulti, due anni anche di dottrina cattolica molto normativamente rigorosa”.
In questo, la madre non obbediva, coscientemente e pure “peccaminosamente”, alla regola tridentina del battesimo neonatale. “Siccome nessuno, o quasi, ci crede più veramente – ripeteva a sua giustificazione non solamente, molto, molto dopo a sua figlia – la Tradizione cristiana, viva e attiva, è quasi completamente sparita. Inutile, quindi, far finta che esista nella realtà diffusa una comunità cristiana compatta che sia rappresentiva e testimoniale anche per le bambine. Quindi tanto vale ritornare alla regola ambrosiana che aveva permesso pure la conversione del più che trentenne e maturo Agostino, il futuro grande sant’Agostino d’Ippona: sant’Ambrogio l’aveva battezzato tra la felicità di sua madre Monica, riconosciuta anch’essa santa”.
Così come fece anche con l’imperatore Teodosio dopo averlo cacciato, pure in malo modo, dalla sua basilica. Questi aveva tentato, com’era d’uso all’epoca e nella nostra era detta postmoderna, di affermare pubblicamente – proprio come oggi – l’idea laicista (non solamente laica) del dominio statalista, dello Stato assoluto, sul potere inviolabile e spirituale riguardo alla Persona! Il supremo vescovo di Milano, come quasi tutti i milanesi generalmente acquisiti, era originario di Treviri, città tedesca vicino a Colonia, millecinquecento anni fa. La cosa non poteva essere più a fagiolo per le tendenze già moderatamente teutoniche di Franca.
Epperò, ormai ventottenne, lei non si era mai fatta battezzare, con grande preoccupazione tormentata di sua madre e dell’accomodante papà “terrone”. L’ancora giovanile educatrice cattolica, ormai anche meneghina, nutriva ormai parecchi dubbi sulla sua strategia molto personale ed eterodossa, oltre che “catecumenale”, rispetto al battesimo di sua figlia.

 

 

 

 

Juliette ricevette le foto della festicciola per e-mail. Ce n’erano moltissime: tutte ovviamente televisive.
“Comunicano veramente la realtà – si chiedeva la giovane belga – tutte queste infinite fotografie?”. In parte, solo in parte. È come, in effetti, guardare la televisione senza suono: una rappresentazione afona della realtà senza però i suoi contenuti. Di Franca e Roberto in festa c’erano moltissime istantanee fatalmente stereotipate. Una sorta di casting visivo da cui occorreva intuire la realtà, tutta la realtà. Nel mondo si fanno ora centinaia di miliardi di fotografie ogni anno, ma il riduzionismo rappresentativo della realtà non ha fatto che aumentare, anche col cosiddetto pensiero unico. Da cui Franca capiva la decisività almeno interpretativa della “bruttezza” schematica e primitiva in un quadro come le “Demoiselles d’Avignon” di Picasso.
Ci si può anzi chiedere, soprattutto ora, se il reale non abbia cominciato, nella società massificata, a rassomigliare sempre più al prototipo della sua istantanea, della sua fotografia perfettamente riprodotta con colori e contorni anche tridimensionali…
“Perché quasi tutti – non si stancava di ripetere la madre di Franca – non fanno che fotografare compulsivamente? Inutile negare che si cerca così di appropriarsi di quel reale che l’ideologia di un universo culturale senza trascendenza fa inevitabilmente sfuggire”. Alla milanese ambrosiana piaceva sempre giudicare le cose compiutamente.
Così di Franca nessuna immagine, trasmessa perfettamente e istantaneamente a quasi duemila kilometri, restituiva il suo fattore reale più caratteristico: Franca trincava troppo e sistematicamente in tutti questi party. Perfino Roberto se ne era già preoccupato.
Perché Franca beveva? Nessuno lo sapeva veramente, anche se vicino e a stretto contatto con lei. Aveva cominciato cinque anni prima con le birrette a Bruxelles, quando aveva conosciuto Juliette in una di quelle happy hour tanto diffuse nella capitale belga. È lì che soprattutto gli studenti, indifferentemente fiamminghi o francofoni, non fanno altro che ubriacarsi in modo rallentato. Nell’abbrutimento molto totale. Dopo il suo primo stage, il tirocinio in Belgio, ritonata in Italia, Franca continuò piuttosto con i cocktail. Soprattutto con i Margarita muniti di oliva. Spesso ascolana, naturalmente. Anche Roberto, particolarmente, voleva scoprire il perché la “sua” razionalissima Franca beveva. O piuttosto trincava apertamente oltre ogni misura.

 

 

 

 

Da giovane esperto, diciamo così, “tombeur de femmes”, Roberto tuttavia non capiva proprio. Nemmeno la “segreta profondità” cui alludeva Jessica, che pure l’aveva conosciuto biblicamente in intimità per parecchio, gli permetteva di penetrare questo mistero purtuttavia sotto gli occhi di tutti gli amici di bisboccia.
Ma Roberto forse non considerava nemmeno la cosa un problema prioritario. Era talmente totalizzato dalla riuscita della sua ditta e del suo lavoro che, anche comprensibilmente, tutto il resto gli appariva secondario. E naturalmente, a lui generalmente dovuto, secondo lo stile autocentrico proprio del giovane contemporaneo. Perfino il sacrificio economico di suo padre anche alla sua carriera (del resto già compromessa dalla crisi economica) non gli appariva – come effettivamente era – un privilegio accadutogli, quantomeno statisticamente, nella più assoluta gratuità. Quanto non riguardasse direttamente la sua persona o quella di Franca lo annoiava, a volte anche evidentemente.
E pertanto l’idea di papà era semplice. Alberto era il suo nome ed era convintissimo di appartenere ad una generazione tra le più abiette che la storia potesse ricordare, molto probabilmente la peggiore. In quanto pubblicitario avvezzo a riflettere sulle motivazioni alla base del consumo generale e sugli indirizzi dei mercati nella sua epoca, era giunto progressivamente alla conclusione che tutta la sua generazione, ed anche quella successiva di suo figlio, si erano cosificate – lui usava piuttosto il termine “reificazione” – nel falso edonismo che aveva stravolto almeno l’ultimo mezzo secolo nel mondo.
“Il primo crimine della mia generazione è stato – diceva – l’aver deciso e prodotto la denatalità”: non fare, cioè, più figli o quasi (circa 1,3 per coppia europea, quando per la sola sopravvivenza delle popolazioni ne occorrono 2,1). E questo allo scopo di poter soddisfare agli standard di consumo che anche le agenzie di pubblicità, dove aveva fatto carriera tutta la vita, avevano consigliato o “imposto”. L’immoralità dilagante e il permissivismo complementare collegati avevano anche permesso che si approvassero leggi criminali di uccidere nelle pance delle donne più o meno libertine (però con motivazioni perlopiù economiche), i frutti dei loro piaceri che le società pansessuali avevano ingenerato. Inutile forse epilogare sull’irresponsabilità ancora più ignobile anche degli uomini, simmetricamente mancati padri. Così, in una cinquantina d’anni, più di tre-quattro volte la popolazione europea è stata impedita di nascere: con aborti e contraccezioni varie!
Senza privarsi di false motivazioni diverse, perfino cervellotiche: come quella malthusiana. La teoria del razionalista (certamente non razionale) inglese Malthus, a fine settecento inizio ottocento, affermava in modo scervellato che il pianeta terra non poteva dare da mangiare agli allora suoi abitanti per cui bisognava ridurre le nascite. La stessa “ragione” per cui oggi l’ONU, alla constatazione che troppi bambini non vanno a scuola, commenta ancora follemente e incredibilmente di “ridurre le nascite”!
La storia invece ha dimostrato che nel 2015 il mondo ha prodotto una volta e mezzo in più del necessario sostentamento della popolazione mondiale. La quale è diventata anche più di cinque volte quella dei tempi di Malthus. L’umanità ha attualmente, sulla questione, solo un problema di eque distribuzioni e di sprechi nutrizionali, secondo quanto ripetono pure organismi dedicati come la FAO.
Nel frattempo l’ideologia generale è rimasta nelle convinzioni per cui sulla terra ci sarebbero troppe popolazioni e persone. “Roba da lobotomizzati coattivi!”, ama sempre aggiungere il padre di Roberto a commento del fatto che alla televisione e nella stampa si vede ancora oggi il sostegno aperto e ottuso, nella totale falsificazione dei fatti, delle idee malthusiane.
Preso da una corresponsabilità generazionale rovesciata col suo mondo professionale e civile, in sovrappiù molto crudele, Alberto decise di almeno aiutare suo figlio a trovare un’altra e ben diversa strada.

 

 

 

 

Roberto è il tipico risultato di una generazione spensierata. Malgrado la sua intelligenza di tipo istintivo, per cui ha intrapreso una professione quasi opposta a quella che abitualmente viene consigliata ai giovani di talento (una attività cioè “intellettuale”), non era quasi mai in contraddizione con la generalità dei suoi amici e compagni. Oggi, tuttavia, per intraprendere lavori manuali bisogna essere molto più intelligenti e veramente più colti della media. Al punto da non essere soggiogati dall’idea molto conformista per cui i lavori da impiegato d’ufficio sarebbero prestigiosi. Al contrario, essi sono generalmente – a un certo livello – ormai dequalificati o rapidamente dequalificabili, interscambiabili e fatalmente sempre più malpagati. Si rischia così di rimanere pure disoccupati cronici alla prima occasione di frequenti riduzioni del personale. Ma è sul piano ideologico, della cultura generale della vita e del suo funzionamento esistenziale che Roberto è completamente in sintonia apparente con la generalità del suo mondo giovanile. Con quell’universo che si potrebbe identificare sinteticamente con la formula coniata dai situazionisti francesi all’inizio degli anni ’60: cioè la vita prodotta “dalla società dello spettacolo e dallo spettacolo della società”.
Una vita riduttiva che concepisce, da una parte, la slot machine economica che produce la “noia del lavoro” con in premio un bancomat personale ben fornito e a disposizione; e dall’altra, gli standard pseudo-edonisti di conformità sociale. Una visione, quindi, di continua ricerca di piaceri e privilegi anche col minimo sforzo personale.
La sicurezza economica è in tal modo in funzione del divertimento diretto, con più occasioni possibili di appagamento di desideri. Una visione irriflessiva e priva di problematiche tendenti alla ricerca comunque del senso globale della vita, del suo significato. Questo, come l’esistenza della verità, secondo la mentalità detta nichilista ormai diffusissima, non esiste: inutile cercarla.
Epperò, a Roberto, il suo lavoro e la sua piccola impresa piacevano comunque enormemente.
Ma il rapporto esistenziale tra uomo e donna, anche se ridotto alla sessualità e alla fruizione più immediata fatta di piaceri continui di tipo orgasmatico, ripropone inevitabilmente e sempre prepotentemente la problematica essenziale propria dell’esistenza totalizzante e infinita: l’uomo è fatto pervicacemente di infinito. E il piacere di esistere è sempre e solo un piccolo anticipo, una briciola, della pienezza del senso globale della sua ineludibile vitalità.
Si deve così sempre cercare di mistificare e falsificare questa complessità intrinseca, se si vuole sfuggire ai “pensieri” e abbandonarsi all’edonismo tanto promesso e sventolato da ogni parte. È da queste tematiche, considerate sempre noiose e invasive, che generalmente i giovani cercano così di sfuggire. Il metodo è quello della moltiplicazione degli eventi di divertimento: bisogna continuamente situarsi in una diversione, in un cambiamento coatto in cui la cosiddetta novità seriale serve a distrarre dal problema centrale ed esistenziale. Il quale è sempre naturale e, allo stesso tempo, salvifico nella sua costante richiesta di radice e finalità. L’uomo sarebbe così chiamato, continuamente e da ogni parte, a riconoscere la creaturalità laddove la sua pienezza è racchiusa, se non fosse autodistratto dai suoi stessi divertimenti.
Alberto, il padre di Roberto, ad un certo punto della sua vita ha capito che questo, e solo questo, poteva dare senso alla sua, tutto sommato, mediocre esistenza fatta anche di grandi successi professionali ed economici. Da cui la scelta del  suo nuovo lavoro come giardiniere e pubblicitario marketing di posizionamento, nella ditta del figlio: però in “privato”.

 

 

 

 

Anche la sessualità diventa generalmente compulsiva in un mondo siffatto. E le copule, più volte, molte volte quotidianamente o per settimana, nelle posizioni più strane ed eccitanti, costituiscono anche la finalità delle relazioni. E soprattutto con partner diversi, multipli fino all’inaudito. Fino alla noia. Il tutto, parafrasando le nozioni rimaste e residuali delle figure erotiche della storia conosciuta: dal mito del “catalogo” di molte migliaia di femmine conquistate da Don Giovanni, fino a quello massificato contemporaneo, pure senza eros, con sostanze stupefacenti allo scopo di dimenticarsi permanentemente di tutto: “di tutte quelle dannate problematiche che risbucano sempre fuori, malgrado i costosi viaggi, le destinazioni più eccitanti e svariate, le compagnie più “audaci e stimolanti”. Fino al rovesciamento simmetrico del Don Giovanni femminile e al limite dell’insensibilità fisica.
Le ragazze ci giungono più rapidamente. Perché Franca beveva?
I ragazzi, strutturalmente più ottusi, ci arrivano abitualmente dopo, molto più tardi. A volte, o meglio piuttosto  spesso, completamente abbrutiti, non ci arrivano apparentemente mai.
Papà Alberto, col pentimento di esserci giunto così tardi e di aver perso una parte importante della sua vita in scemenze anche di successo e condivise, aveva raggiunto un livello di coscienza del suo tempo così devastato da mettere in atto scelte professionali per sé decisive e socialmente inusuali.
Restava il problema di aspettare la vera maturazione anche del figlio. Ormai si comincia a maturare, o meglio piuttosto a senilizzarsi direttamente, anche alle soglie dei quarant’anni. Il livello di complessità culturale del mondo e, soprattutto, delle intense attività di falsificazione della militanza propagandistica delle nuove mitologie più distruttive, sono tali che si deve essere già felici di averla scampata nella comprensione dell’essenziale dell’esistenza: la demenza nel nichilismo è, in sovrappiù, sempre in agguato. Non contenti di aver infranto oceanicamente le leggi naturali e di Dio, le nostre generazioni – così parlava papà Alberto al figlio Roberto, per cercar ancora di educarlo sebbene la sua non più giovanissima età – si son anche permesse il lusso supremo di indebitarsi, con la complicità dello Stato statalista. Anche a livelli stratosferici per vivere ancor più al di sopra delle loro possibilità. Mai hanno rimborsato i loro debiti altrettanto criminali quanto il misfatto della denatalità: il debito pubblico non fa che irresponsabilmente aumentare continuamente, in tutti i paesi. Il rimborso – che importa! – lo faranno le generazioni future.
– Dai papà, ora non esagerare… Roberto cercava di minimizzare.
– Tanto anche i giovani non reclamano nemmeno! Il desiderio di aumenatre il livello di edonismo massificato (oltretutto falso, decrescente e squallido) li ha portati dove l’infinito intrinseco della loro esistenza li attira ineluttabilmente. Ma in modo perverso, contro natura e contro Dio. Molto spesso, non giungono nemmeno ad un livello di coscienza seppur minimo di questa scelleratezza. In questi innumerevoli casi, si passa dall’età immatura tardo-adolescente a quella immediata della senilità ignorante e precoce. Ed economicamente criminale ma legalizzata da leggi stataliste.
Ora tutto questo individualismo forsennato e peccaminoso aveva convinto Alberto a fare almeno qualcosa di opposto alla vergogna praticamente sempiterna della sua “incomparabilmente ignobile generazione”. Completamente ignara, e sempre colpevolemente, della sua gigantesca devastazione storica: mal comune mezzo gaudio, ripeteva.

 

 

 

 

La coscienza globale e politica di papà Alberto, lo aveva anche riportato alla religiosità totalizzante che aveva coltivato piuttosto in giovinezza. E che anche lui aveva abbandonato per seguire la tendenza generale atea e miscredente del suo mondo. Dagli anni ’60, i paesi occidentali hanno operato infatti una svolta storica introducendo nella gestione delle loro nazioni e nell’Unione europea il regime dello statalismo più o meno acuto ma sempre devastante. Esso stabilisce la supremazia della gestione dello Stato sulla vita spirituale dei popoli e dei loro corpi intermedi, distruggendo sempre più il millenario principio di sussidiarietà. Questa ideologia riduttivista e totalitaria molto diffusa ha portato alla dittatura del relativismo, ad un debito pubblico praticamente non rimborsabile e ad una società laicista e totalitaria contro soprattutto l’inviolabile libertà della Persona.
Si tratta dunque dell’utopia secondo cui l’uomo-creatura, che un giorno è nato e in un altro muore, non riconosce più il suo Creatore e progetta di sostituirlo con se stesso. Da cui il sovvertimento dei valori, il cui primo risultato è la mostruosa denatalità fino all’attuale follia demenziale del gender.
La possibilità cioè di vivere di spensieratezza superficiale e nella giungla di leggi esistenziali acefale, come per Franca e Roberto, dipende dal dominio assoluto di questo principio statalista generale e generativo di tutte le altre degenerazioni.
La scelta per Alberto di aiutare il figlio nella sua impresa, la quale necessita ancor più di far fronte al regime ipertassatorio dello statalismo centralizzato e burocratico, non è solamente economica. Essa è, a priori e di conseguenza, fondamentalmente religiosa. La ragione, si sa, almeno per i veri religiosi e coscienti ontologicamente, è in stretta correlazione con la fede. Il lavoro non può non essere che la continua e umile aggiunta di valore alla Creazione. La bellezza e la semplice competitività, per esempio dei giardini, ne è una delle esemplificazioni praticabili.
Lo scopo particolare di papà Alberto è che il figlio si accorga compiutamente anche lui della portata globale e implicativa  della progettualità della sua impresa. Roberto, per il momento e apparentemente, corre solo appresso al successo della sua aziendina di cui non ha il riconoscimento appieno – o non vuol molto saperne – riguardo al contributo reale del padre. E dell’autonomia morale della stessa sua impresa che ha una vita sua intrinseca  e indipendente. Quando li avrà acquisiti, Alberto, anche per l’età, potrà ritirarsi progressivamente constatando il termine della sua missione. E il dovuto rispetto delle sue forze e della sua salute. Pronto che sarà, se Dio vuole, anche alla sua morte che giunge dopo una sensata, compiuta e finalmente santa vita familiare.
Almeno in concreto, questo porta – soprattutto personalmente – a riparazione della profonda scempiaggine e ingiustizia della sua generazione globalmente dissennata e completamente persa nei meandri dello statalismo.

 

 

 

Il processo educativo di un genitore è sempre un rischio! La libertà della Persona non permette una programmazione predeterminata e meccanicista. Anche Franca non ha rispettato il “progetto” della
madre che l’avrebbe voluta battezzata e sapiente da adulta. Invece, lei beve!
– E convive con un ragazzo – considerava la madre –, da molti anni con vari e diversi ragazzi successivi, al di fuori, va da sé, dal matrimonio in  una coppia ripetitiva pure senza progetto familiare. Ora con un buon lavoratore e bel ragazzo anche rispettoso, ma pure lui, pare, riduzionista e vagamente gnostico.
Siccome è della sua propria anima personale che papà Alberto deve assicurare la salvezza, mettendosi a diposizione del lavoro del figlio, anche se parzialmente (oppure grazie a questa oculatamente limitata sussidiarietà), l’ha fatto, o piuttosto ha cominciato a farlo. Eppoi come continuare a educare, a più di settant’anni, un figlio trentenne se non con il lavoro e, ancor meglio, con un lavoro necessariamente imprenditoriale?
La madre di Franca, da par suo, ha finalmente compreso che se intenzionalmente, per la libertà della figlia, aveva ben fatto a non farla battezzare, ha avuto negli ultimi tempi e progressivamente la certezza che i suoi dubbi su detto non battesimo da neonata si siano trasformati in coscienza di disobbedienza al saggio Magistero bimillenario della Chiesa. Molto più sapiente, questo, delle sue personali congetture teologiche da buon senso di casalinga falsamente intuitiva.
– La Trinità esiste realmente, opera e il Battesimo è un sacramento dei vivi, ha finito per ammettere.
– I figli vedranno mai veramente tutto questo comportamento dei genitori, i quali hanno intrapreso, anche silenziosamente sotto la loro totale responsabilità, iniziative critiche suscettibili di errori, interloquiva Alberto alla moglie nei loro dialoghi praticamente quotidiani e accorati.
In questo sta tutto il mistero della famiglia di cui la Chiesa ha definito, nel biennio del Sinodo a Roma, che non è solo oggetto di missione ma pure soggetto salvifico…
Quanto a Franca, ora dovrebbe tra qualche settimana anche partecipare come delegata tra gli italiani a Bruxelles nel quadro delle politiche della famiglia – o come tendono a dire adesso, sempre più insensatamente, “delle famiglie” al plurale – alla riunione annuale di programmazione dedicata alle iniziative per le future funzioni europee. Ben sapendo che codeste politiche, negli ultimi decenni, sono state completamente deficitarie e devianti. È di questo che Franca parlava con Juliette per la sua visita a Bruxelles. Ella infatti è già affascinata da tutto il discorso, ampio e totale della famiglia cattolica: anche della sua, grazie soprattutto a sua madre.

 

 

 

Un grado decisivo di questo processo educativo per Roberto fu allorquando, dopo i suoi studi universitari, che erano stati sempre considerati in famiglia intelligentemente generici e inizialmente passe-partout, venne il momento di decidere per il suo lavoro. Papà Alberto che, come quasi la totalità dei padri, era rimasto alquanto defilato rispetto al figlio, pressoché nel ruolo del consueto “assente” che la cultura della società moderna assegna alla cosiddetta virilità familiare, intervenne radicalmente e progressivamente. Fino a che tutta l’architettura del progetto lavorativo di Roberto non fu completamente assunta e assimilata, o quasi, dal giovane.
Ma prima ancora, con l’avvicinarsi della cosiddetta laurea in economia presso l’“università sottocasa” di Camerino, uno degli innumerevoli “esamifici” inventati dallo Stato statalista per creare artificiosamente cattedre e clientelismo corporativo o per “parcheggiare” centinaia di migliaia di giovani il più lontano possibile dagli inattivi sulla strada, il momento fatale giunse.
Si trattava di spedire prima il virgulto “economista provetto in fieri” ad imparare veramente un po’ d’inglese. Già erano passati tre anni in più di fuori corso, come molto abitudinariamente e in completa tranquillità succedeva per una larga parte di studenti, prima di portare a casa il mitico pezzo di carta. Un anno s’era evaporato, se così si può dire, a Valencia, ufficialmente per uno stage all’Ufficio dei marchi dell’Ue. In realtà, Roberto si era molto svezzato sessualmente con le “mille e tre” indigene spagnole di mozartiana memoria. Tra cui pure due italiane romane, una bella tedescona di Amburgo – tutte anch’esse tirocinanti – e una inglesina di Manchester per cui aveva rischiato anche di abbandonare gli studi e partire a fare il cameriere in Inghilterra.
Papà Alberto aveva quasi segretamente predisposto, per le sue due figlie e per il primogenito Roberto, tre monolocali in dotazione, come anticipo utile dell’eredità. E questo allo scopo di avviarli, non in modo totalmente handicappato e proletario, nella loro “valle di lacrime” del postindustriale indebitato e depressionario, messo ingiustamente sul gobbone dei giovani.
Anche se non si finisce mai di essere solidarmente corresponsabili con i misfatti della propria generazione, il vecchio pubblicitario, già oltre la sua pensione da vari anni perché convinto che si debba lavorare, salute permettendo, fino all’ultimo respiro, voleva far di tutto per non seguire pedissequamente la sua scellerata generazione europea. Questa ha contributo – contrariamente alla comune convinzione – solo per il 18-25% al costo della sua pensione. Sono i lavoratori attivi che la finanziano per il rimanente 75-82%. Perdipiù senza nessuna speranza di poter beneficiare di condizioni future nemmeno paragonabili per loro stessi!

 

 
Naturalmente nemmeno di queste cosettine nessuno parla in tutto il Vecchio Continente statalista.
Ma il motivo principale per cui Alberto lavora ancora, anche se pensa che dovrebbe lavorare meno e non – come attualmente – di più (progressivamente in diminuzione e compatibilmente con le proprie energie e di salute, anche solo per consulenza), è perché almeno i propri figli potessero beneficiare, nella loro partenza professionale, di un aiuto compensatorio a cotanto sfacelo: dar loro un tetto anche ammobiliato a loro gusto, dopo gli studi universitari.
Era quanto considerava, in ogni caso, lo standard minimale della sua famiglia. Aveva lavorato duro e intelligentemente tutta la sua vita con questo obiettivo che, molto semplicemente, considerava dovuto ai figli (pure in mancanza di meriti speciali loro), affinché fossero veramente fieri dei loro genitori.
Così i tre giovani della sua famiglia, a partire dalla ventina d’anni, hanno potuto tutti disporre del loro bel monolocale per far fronte – almeno sul piano economico – in modo veramente libero alla loro sussistenza o quasi. Con sua moglie era quindi orgoglioso di questo risultato, ma pure preoccupato per la loro formazione culturale, professionale e soprattutto esistenziale giovanile.
– È la società tutta, purtroppo – amava ripetere agli amici – e non la famiglia a educare i figli: questo almeno, diciamo, per l’80%. Ma il   restante 20% risulta strategicamente il più determinante e essenziale: la forza della famiglia è moltiplicata, inimmaginabilmente e contro ogni legge contabile, grazie alla sua fedeltà e alla durata. Due valori basilari della tosta economia popolare della vita.
Fu così che, alla decisione di fondare un’impresa per Roberto, tutta l’accumulazione silenziosa e quasi nascosta di papà Alberto fu messa sulla bilancia anche col peso morale della madre. Con l’aggiunta di più di 200.000 euri per pick-up, rimorchi, macchine di giardinaggio professionali, strutture da cantiere, vasta utensileria, scorte in deposito, eccetera. E tutto il suo lavoro gratuito in natura, appassionato e professionale, difficilmente valutabile monetariamente. Non solo sul piano manuale ma pure marketing e pubblicitario oltre che amministrativo (dal saper fare delle belle e serie offerte alla contabilità legale e amministrativa).
– Inevitabilmente, i miei figli, comprese le due ragazze, se ne accorgeranno col tempo, aveva dichiarato ben convinto in varie occasioni.

 

 

 

In effetti, non solo i suoi figli, ma anche molti altri giovani e meno giovani erano stati attratti, non solamente nella regione, da questa idea economica. Franca stessa, anche nel quadro delle sue attività di volontariato sulla Famiglia, aveva potuto conoscere Roberto proprio per la notorietà che le scelte private del vecchio pubblicitario avevano  operato. Le opere, anche silenziosamente realizzate, sono irresistibilmente prorompenti pure nella comunicazione sociale. Perdipiù oggi i minimedia e i network internet veicolano sorprendentemente informazioni che i grandi media non vogliono e non “possono” ideologicamente  comunicare. Alberto aveva firmato articoli intorno alla sua innovatività, su qualche media regionali e online. E già un libro su tutta la loro storia era in corso di realizzazione. Due catene di televisione non solamente locali l’avevano intervistato. Il padre aveva portato sullo schermo il giovane Roberto che non si aspettava tanta notorietà gratuita. Il discorso di Alberto, comunicatore maturo, li aveva resi già relativamente famosi e i cantieri di lavoro si seguivano senza sosta.
Quali erano i contenuti di tutta questa comunicazione, peraltro soprattutto scritta, provocata dal vecchio copywriter Alberto?
I giardini, le piscine e le architetture conviviali costituivano solo una parte minima e pure ormai marginale – efficacemente oggettiva e scontata – delle comunicazioni richieste dai vari media alla coppia di padre e figlio. L’uno giovane professionale titolare e l’altro vecchio uomo marketing detentore del discorso generale assolutamente “intelligente” e interessante per cui, finalmente, erano richiesti e a cui venivano tesi i microfoni.
Il discorso di fondo era molto semplice e fondato con evidenza: la colossale crisi economica che da molti anni attanagliava – e ancora attanaglia – il mondo, “dipendeva da una sola causa fondamentale, quella della denatalità”!
L’interesse per questo tema era dovuto principalmente al fatto che, malgrado le reiterate speranze indotte di uscita dalla crisi economica, questa continuava imperterrita anche a livello internazionale. Malgrado i continui annunci di esperti economici che analizzavano con molta precisione tutte le concause economiche fino alla nausea, ci si accorgeva progressivamente che queste ragioni erano, tutt’al più, conseguenti e quasi irrilevanti. Siccome nessuno o quasi parlava del fatto che si era artificiosamente impedito, in due generazioni secondo idemografi, la nascita di almeno due miliardi di persone, la domanda di beni e servizi nel mondo – la domanda cosiddetta interna – era progressivamente crollata e stabilizzata nella penuria depressiva e proporzionale.
Logico, con la metà di non nascite naturali in Occidente, che ci sia crisi!
“Ecco la crisi economica, per l’essenziale”, ripeteva senza stancarsi Alberto, allorquando gli piazzavano i microfoni sotto il naso. Così dicendo si affrettava anche a chiarire, soprattutto nei suoi articoli, che non bisogna essere particolarmente intelligenti ed esperti per capirlo. Bastava invece l’ottusità e la protervia dei cosiddetti esperti sofisticati e dirigenti nichilisti che continuavano a non comprendere la realtà a causa degli occhiali deformanti della loro ideologia edonista e superominica.
Alla domanda inevitabile intorno al perché del successo della ditta del figlio, il quale aveva appena assunto altri due operai, la risposta dell’uomo marketing era altrettanto semplice: si trattava di una nicchia la cui attività è richiesta a causa di una offerta innovativa e non esosa – la loro – a propietari relativamente ricchi e colti. Quindi non da professionisti primitivi e relativamente ignoranti, ma da laureati, pari ai facoltosi clienti, che sapevano utilizzare anche il marketing moderno e che non avevano però paura di “sporcarsi” le mani di terra. Quella rimasta sempre alla stessa altezza: molto bassa. Anzi che amavano quel mestiere con passione e dedizione culturale totalizzante. E con una competenza, un gusto assolutamente moderni e di punta!
I telespettatori, gli ascoltatori alle radio e i lettori erano naturalmente deliziati.

 

 

 

– Il primo non nato, per aborto o per contraccezione già di massa negli anni ’60, avrebbe oggi già dei nipotini di più figli. Tutti mancati produttori o consumatori di case, mobili, scuole, cibi prelibati, ospedali. Non essendo nato, gli attuali governanti – anche a causa delle loro politiche dissennatamente stataliste, in sovrappiù – sono costretti a riempire di tasse le popolazioni. Sottoponendole, nel frattempo, alla demagogia e all’inevitabile dittatura centralistica di una tecnocrazia e di una burocrazia kafkiane.
– È proprio quanto sta succedendo anche in Francia, gli aveva aggiunto, con un italiano stentato, un turista francese sull’Adriatico, stranamente interessato, in quanto gallico, alle cose non laiciste.
Alberto, a volte vestito ancora con la tuta verde dell’azienda e con le scarpe leggermente infangate di terra, distillava – da neo-operaio marketing comunicatore – anche in ammirate conferenze la sera e pure di domenica, queste osservazioni evidenti presso circoli o parrocchie. Non solo a queste ultime, egli ricordava che “l’edonismo criminalmente lobotomizzato – era il suo aggettivo più caro con abbrutito – altro non era che la ribellione alle leggi naturali e a quelle rivelate da Dio”. Per cui la soluzione a tutti i problemi in questione poteva solo partire – innanzitutto – da un ritorno creaturale alla sapienza magisteriale e anche pratica del supremo monachesimo medievale: di cui tutti potevano ancora vedere i meraviglioci monasteri in ogni regione soprattutto d’Europa, ricolmi di tecnologia di punta del tempo.
I responsabili politici regionali gli avevano offerto, alle ultime elezioni a lui e al figlio, posti nei loro partiti, sicuri del loro successo elettorale. Ma sia Alberto che Roberto declinarono gli inviti. Il figlio a causa di una sua sostanziale impreparazione globale alla carriera proposta: amava troppo il suo lavoro, il grado di libera indipendenza che gli procurava e soprattutto la soddisfazione per la realizzazione di bellezza concretamente visibile.
E Alberto a causa del fatto che non esistono oggi partiti in grado di digerire i suoi discorsi politici ed economici così apertamente antistatalisti. E poi, la sua missione personale non era ancora finita: aveva ancora due figlie da “sistemare”. E, per completare sulle ragioni dei suoi rifiuti, la sua età cominciava a parlargli di acciacchi…

 

 

 

Franca seguiva con molto interesse tutte queste esternazioni di Alberto nei media limitrofi che sistematicamente riportavano in prima fila anche Roberto. Tutto il discorso del pubblicitario sulle conseguenze economiche disastrose della denatalità, la interessava anche particolarmente in quanto delegata a Bruxelles sui problemi della famiglia. Malgrado la sua convinta laicità personale (ma non laicista), si era da quache anno impegnata nell’associazione italiana affiliata a quella europea di tendenza cristiana. La cultura seriamente cattolica, della madre non era estranea a questa sua militanza. È lei, infatti, che l’aveva attirata al volontariato in una associazione a difesa della Famiglia. Attaccata ferocemente da molte parti e intimamante disgregata dall’interno, da forze centrifughe fondamentalmente ideologiche dette moderniste, la famiglia naturale, struttura di base universale di ogni cultura, ogni tempo e ogni società civile, invoca aiuto. Franca, in modo oscuro e pure contraddittorio col suo stile di vita apparentemente dissipato, non seppe resistere all’invito dei suoi genitori cui si sentiva in ogni caso ancorata. A questa era già grata di averle permesso di sperare un livello di vita non inferiore ad essa com’era invece il caso per la maggior parte delle sue amiche. Non era mai successo nella storia che una nuova generazione non potesse riporre fiducia in un tenore di vita superiore a quello familiare precedente. Per guerre o epidemie, a causa delle innumerevoli morti premature, i giovani hanno sempre approfittato di eredità, a volte relativamente modeste, ma migliorative rispetto alle condizioni loro anteriori.
Ora le società stataliste, indebitate e depressivamente denatalizzate, hanno completamente rovesciato il tradizionale schema di sviluppo naturale trasformandolo, nel migliore dei casi, in triste stagnazione vitalmente deludente e deprimente. I giovani di gran valore, come Franca e Roberto, sono ora situati tra due polarità esistenziali quasi sempre contraddittorie, anche in modo apparentemente antagonista. Da una parte l’iperattivismo irrazionale e dissennato sul piano vitalistico, in cui vengono ricercati, nella scia del desiderio continuo che non esclude la propria dissipazione, gli estremi del piacere coatto, anche convulsivo; e dall’altra, il semplice ascolto ontologico e naturale del linguaggio del cuore che, da sempre, coincide con la verità della vita e con i suoi valori eterni veramente umani. La tenuta su questi due binari fatalmente divergenti richiede quasi sistematicamente l’oblio o l’alienazione di sé. Perché Franca beve?
E perché Roberto pensa, in fondo, a collezionare segretamente e principalmente reggiseni e mutandine di ragazze?

 

 

 

 

Papà Alberto, all’idea di spedire Roberto a Chicago prima della laurea ci stava già pensando da parecchio. L’agenzia di pubblicità e di affissioni ad Ancona in cui lavorava e continua a lavorare da sei anni dopo la sua pensione,  collaborava con una dell’Illinois già dagli anni ’80: avevano anche scambiato un 2% del loro capitale per consolidare l’accordo fondato sulla necessità reciproca di localizzarsi internazionalmente. Spesso le loro clientele locali avevano la necessità crescente di esportare i loro prodotti o di creare reti di distribuzione nei mercati esteri. Ormai la mondializzazione dell’economia diventava, già da una ventina d’anni, una necessità imprescindibile. Con l’informatizzazione degli anni ’80-’90 e con l’avvento d’Internet, la globalizzazione sarebbe divenuta anche l’attuale “glocalizzazione”, vale a dire la fusione in un termine di due concetti chiave: la globalizzazione e la sempre indispensabile localizzazione. Da cui il neologismo californiano “glocalization” sorto e diffuso rapidamente dalla metà degli anni ’90 anche in Europa. Già all’anno 2000, erano presenti su Internet più di un milione di occorrenze di glocalization nelle sette lingue principali. Ormai, anche con la crisi economica, non è più possibile praticare veramente l’esportazione senza la glocalizzazione. Soprattutto per le agenzie di comunicazione e inevitabilmente traduttive, quindi bisognose indispensabilmente di un partner qualificato e di fiducia nel mercato target e geostilistico. In effetti, l’agenzia anconitana sottoscrisse molti accordi collaborativi di partenariato  o in franchising con parecchie altre agenzie pubblicitarie dislocate nel mondo intero. Con una di queste, ad Edimburgo, già la figlia minore di Alberto aveva potuto fare uno stage, come dicono da quelle parti, di sei mesi. Fra l’altro è stata quella l’occasione per fidanzarsi con un giovane irlandese anche lui stagista: il loro matrimonio, molto cattolico, si celebrerà fra non molto a Dublino.
Ma papà Alberto volle qualificare più precisamente il soggiorno americano di Roberto. Prima di partire lo fornì di un solo libro, in inglese, raccomandandogli di leggerlo a Chicago. Oltre alla padronanza della lingua, un anno negli Stati Uniti doveva servirgli per familiarizzarsi con un certo grado diffuso di liberalismo quasi introvabile sul Vecchio Continente. Così, abbracciandolo prima che partisse, gli consegnò il capolavoro di Alexis de Tocqueville in inglese, Democracy in America, che il geniale parigino aveva scritto, quasi alla giovane età del figlio, in occasione del suo viaggio molto analogo in America, nella prima metà dell’ottocento.
Fu la sola raccomandazione che gli fece: “Leggilo attentamente e guardati bene in giro”. Laconico e virile, lo salutò tra le lacrime di emozione della madre parrocchiana devota e delle sorelle.
Roberto così fece. Veramente non solo così, in quanto tornò in Italia per le vacanze di Natale, si spinse anche in California fino a installarsi per quasi un mese a New York, prima di rientrare nelle sue Marche.

 

 

 

Con l’inglese abbastanza sciolto in bocca e un po’ di francese appena più che scolastico, Roberto non temeva più per il suo futuro. Ma furono le idee veramente liberali di Tocqueville consigliate dal padre e quelle strutturalmente presenti nelle realizzazioni viste negli Stati Uniti – malgrado le pericolose tendenze ideologiche paneuropeiste e stataliste dei democratici americani – che lo convinsero a fondare la sua ditta. Finito alla bell’e meglio l’ultimo suo anno di studi e la tesi (al livello minimo, come lui diceva, “della mutua”), apparentemente più che per l’insistenza di Alberto e della madre, si sentì pronto ad aprire le nuove attività. Con un vecchio compagno di istituto tecnico per periti, Matteo, il quale si era messo subito a lavorare in una vecchia ditta di gestione di boschi e di arredi urbani, cominciò a progettare una associazione con lui e per lui minoritaria all’8%, ancora abbastanza simbolica ma significativa per le sue esperienze pratiche acquisite sul lavoro degli ultimi anni… Matteo piaceva molto a Roberto: la sua aria posata da non più ragazzo scapestrato, sposato e con un bambino, una vita regolare e responsabile, da anni anche religiosa, gli mostravano la fatuità dei suoi amici tradizionali nei quali ancora si identificava ma sempre più stancamente. È come se percepisse che anche per lui fosse passata l’età che Kierkegaard aveva definita dell’”estetica”. Aveva letto, dell’autore protestante danese di cui un suo professore all’università aveva parlato molto bene a causa del suo “esistenzialismo ante litteram” dell’ottocento, un libro che gli era piaciuto particolarmente. Si trattava di “Aut-aut”. Kierkegaard vi descriveva la vita in tre grandi fasi che gli erano rimasti ben impressi. Quella dell’”estetica”, della giovinezza in cui la dominante era l’esplorazione dell’esistenza, con tanto di errori e dissipazioni. La ricerca dei propri limiti e della propria “densità” avevano soggiogato Roberto mentre lo leggeva e cercava lui stesso la sua vocazionalità. La seconda fase, quella dell’”etica”, vale a dire della maturità, dell’adulto in cui il cosiddetto esistenzialista presentava l’uomo situato liberamente nel suo recinto che lo aveva definito e continuava a definirlo: nelle sue opere e nel matrimonio con la donna della sua vita. E nella paternità.
La terza fase, definita come quella della “religione”, cioè della contemplazione globale della vita in cui tutto si fonde in una unità – la religiosa ben “religata” – anche primigenia e totalizzante.
Roberto capì subito che la distinzione delle  tre fasi era sì reale ma, in profondità, esse coesistevano. Era un po’ così che le viveva. E si era accorto che era venuto il tempo, già da tempo, affinché la sua vita “estetica” finisse la sua preminenza e il primato in una grande svolta. L’incontro con Franca gli aveva dato anche le sensazioni fisiche di questa mutazione radicale. La parola etica significava per lui la fine delle sue scorribande tardoadolescenziali che aveva già fin troppo prolungato. Anche il suo innamoramento non era più predatorio. Aveva cominciato a sperimentare l’abbandono all’altro, nella fattispecie alla bellezza e alla grazia. È come se l’amore per Franca lo aprisse ad una dimensione globale fino ad allora più che sconosciuta, pervicacemente negata contro natura. A causa quasi della sua ultimamente compresa appropriazione precedente come abbrutita e iniziale, troppo a lungo di fatto “violenta”. Violenta contro anche se stesso.
Franca lo stava già capendo, anche se in modo ancora naturalmente incompleto. Pure lei era sulle stesse orme, ben diversamente e più anticipatamente, da consueta ragazza di valore.

 

 

 

Matteo, il socio minoritario di Roberto, cosciente di non essere portato per le teorizzazioni e le ricerche per lui quasi sempre intellettualistiche, non volle la laurea, preferì subito dopo il diploma il lavoro anche duro in foresta o in città nelle piazze. Non leggeva ormai quasi più libri. È sua moglie, pia donna giovane, di cui era caduto come una pera innamorato, che stava leggendo un libro di Carrel sui miracoli di Lourdes, scritto anche in quanto medico. La sua dolce metà gli mostrò un passaggio, sapendo di fargli piacere. In esso il francese Carrel metteva in evidenza che la troppa conoscenza, il troppo specialismo – già al suo tempo – accecava spesso totalmente fuorviando la semplice osservazione della realtà.
Anche l’incredibile longevità del malthusianesimo e della vera incomprensione da parte degli “esperti” riguardo alla causa della macroscopica crisi economica, possono essere spiegati da questa piccola osservazione acuta di Alexis Carrel, premio Nobel un centinaio di anni fa. L’ideologia miscredente che necessita assolutamente, va da sé, la negazione della trascendenza, della creaturalità della vita, acceca anche e soprattutto i detentori di grandi capacità analitiche: generalmente gli “esperti”. La capacità di sintetizzare e ordinare tutte le possibili conoscenze – si sa – non è  infinita.
Questo piaceva molto a Roberto. Anche Franca riconosceva in Matteo, per quel poco che ancora lo conosceva, la semplice e solida cultura popolare sempre prodotta da un giudizio univoco e preciso su ogni cosa. Anche per difetto. Gli “esperti” economisti o politici – nemmeno è il caso di considerare gli intellettuali, arroganti tuttologi massificati di attualità e le molto ignoranti e banali star dello spettacolo – nella finzione di sempre e sistematicamente evitare questo giudizio univoco, finiscono per perdere o distorcere il loro rapporto con la realtà. Secondo il pensiero politically correct, si prostano così senza saperlo, oggettivamente, all’ideologia dell’infinita analisi relativistica che esclude intrinsecamente la verità.
Franca rimase ancor più ammirativa davanti alle ultime spiegazioni di Matteo cui era giunto con Roberto di fronte a una birra nel porto di Ancona, a riguardo della sua decisione di fondare, a suo tempo, l’impresa di giardinaggio.

 

 

 

– Vedi Roberto, lavoravo da più di cinque anni come operaio e capomastro in quella ditta di Loreto, situata alla base della collina ovest del Santuario. Prospettive di miglioramento? Nessuna, strutturalmente nessuna. Anche se operaio specializzato e capocantiere, ero e sarei rimasto sempre subordinato nella ripetitività fatalmente declinante delle funzioni e dell’impresa non innovativa, vecchia e cristallizzata come i due proprietari.
– Davvero così passeisti i tuoi vecchi padroni?
– “La parola subordinazione è anche scritta in testa a ogni contratto di lavoro”, era la loro concezione dell’impresa. È invece – tu lo sai – di coordinazione, collaborazione responsabiizzata, che si dovrebbe oggi parlare. Fino al giorno in cui, fatalmente, questa impresa sarebbe finita con il non essere più competitiva: già quando t’ho reincontrato dopo la tua laurea non lo era più, anche a causa delle condizioni surreali imposte dal sindacato e dal governo. Ma anche a causa delle sue deficenze strutturali che oggi favoriscono invece la nostra ditta.
– Sai bene che sono felice che tu sei venuto con noi…
– Quindi mi si profilava pure la possibilità di essere licenziato non appena non fossi stato più capace di sollevare un tronchetto, sebben tardi nel pomeriggio, o di arrampicarmi su un pino da tagliare…
– Ma in che modo c’entra il sindacato?
– Attualmente devi considerare che l’età media della pensione e prepensione in Europa è di 56 anni e qualche mese. Per gli italiani deve essere anche peggio, cioè inferiore!
– Sì, sì. Basta guardarsi in giro, ce n’è a bizzeffe di cosiddetti pensionati e prepensionati con una speranza di vita anche centenaria o quasi. E che han lavorato, calcolando le casse integrazione o i periodi di cambiamenti di lavoro, intorno a un po’ più del terzo del totale. Una prospettiva di almeno quarant’anni vissuti senza lavorare, quasi a ufo. Roba da matti o da diventare in ogni caso matti. Con tutti i licenziamenti e chiusure d’imprese, per molti milioni negli ultimi anni, la media continentale dei pensionati e prepensionati deve anche essere peggiorata. Mia moglie non ha trovato dati pubblici di cui, del resto, nessuno parla negli ultimi tempi. Soprattutto i sindacati che abitualmente sono così documentati in statistiche manipolate favorevoli alle loro politiche sostanzialmente parassitarie.
– È incredibile quello che dici…
– Incredibile? Senti anche quest’altra. Il debito pubblico che ora il primo ministro e compagnia cantante alla televisione, tutti i giorni (e quante volte al giorno!), vogliono ancora aumentare e per cui stanno pure litigando con Bruxelles, se verifichi bene, è giunto a 90 miliardi all’anno, solo per il pagamento degli interessi. Mi segui sempre?
– Certo che ti seguo, ma chi te l’ha detto di questi 90 miliardi?
– Si chiama Vignali. Era presidente della CdO una decina di anni fa, la Compagnia delle Opere, quella fondata da don Giussani e ora diventata anch’essa principalmente statalista. Il Vignali, da un bel po’ di anni s’è piazzato ed è diventato parlamentare. È in quanto onorevole che ha fatto questo calcolo.
– Non sono al corrente di niente.
– Neanch’io lo ero. È stata mia moglie che mi ha messo al corrente. Da giovanissima era di Comunione e Liberazione e conosceva tutta la banda che ora è pure peggio che statalista: CL non prende ufficialmente posizione, cioè è subordinata di fatto alle scelte del potere! Il contrario di don Giussani, ne avrai sentito parlare.
– Certo, anche in America CL è presente.
– Ebbene, tu sai che quando accendi un prestito, gli interessi li devi pagare subito e prima del rimborso del cosiddetto capitale.
– Sì, certo. Mi pare pure logico.
– Naturalmente. Ora Vignali ha fatto come Pagliarini, sai quello che è stato sbattuto fuori dalla Lega molti anni fa. Lui era un ragioniere che sapeva fare i conti e ne aveva il pallino.
– Toqueville, lo specialista francese della metà ottocento sul liberalismo americano, amava molto i ragionieri, vicini alla realtà con i loro conti. E che conti ha fatto Vignali?
– Molto semplice, quelli che puoi fare anche tu: su più di duemila miliardi di debito, tutti già trangugiati dal nostro popolo vorace in una quarantina e più di anni, quant’è l’interesse annuale?
– Beh, non saprei ora…
– Non te lo diranno mai, né sui giornali né alla televisione! Vignali l’ha fatto: una novantina di miliardi per anno. Vale a dire tre volte – ho detto tre volte – una manovrina fiscale che a momenti non è passata in parlamento. Oppure una ventina di volte quanto è stato stanziato per l’occupazione dei giovani. Ma in due o tre anni!
– Da non credere. E allora?
– E allora, prepariamoci ad aumenti ancora di tasse. Meno male che tuo padre lavora gratis e ci ha messo la grana per cominciare ‘sta ditta, ‘ché tra pensioni baby e solo interessi per i debiti (perché nessuno rimborsa niente!) anzi vogliono aumentarli, bisognerà pur pagare i debiti le spese correnti. Puoi stare sicuro pioveranno altre tasse.
– Ma siccome parlano continuamente tutti di “più società e meno Stato”, ci sarà bene un altro metodo…
– Parole! C’è solo un altro metodo: liberarsi del peso colossale dell’almeno milione di statali che, oltretutto, infestano il buon funzionamento dello Stato con i loro soliti metodi e clientele fatalmente parassitarie e corruttive. Ma come ti dicevo anche CL, la vecchia liberale CL del secolo scorso, è diventata statalista.
– E poi, ti rendi conto di che tragedia sarebbe: licenziare un milione di statali!
– Certo che me ne rendo conto. Basterebbe pagar loro lo stipendio attuale per un certo periodo, chiedendo anche loro scusa per averli ingannati per così tanto tempo. Anche nei sindacati parlano di “misure di accompagnamento”. Il tutto però senza farli lavorare, pagandoli dopo averli licenziati per risolvere veramente il bubbone. Del resto quanti milioni di lavoratori sono stati licenziati silenziosamente nel privato in questi ultimi anni in tutta Europa!
– Ma qui il costo sociale è gigantesco…
– E perché, nel privato non non c’è stato lo stesso costo sociale perdipiù moltiplicato? In realtà il guaio è già stato compiuto in più di cinquant’anni: la catastrofe c’è già stata e non è futura. Prova a pensare a quanto ci costano e ci sono costati ingiustamente, e da quanto tempo il milione e più di statali!. Oppure pensa un po’ a quanto ci costano i terremoti e i dissesti idrogeologici: ebbene, non solo non c‘è un centesimo messo da parte per affrontarli, ma abbiamo anche debiti e stipendi pagati inutilmente da decenni! Credi che si possa continuare ancora così?
– Eppure parlano sempre al governo di diminuire le tasse!
– In effetti ne parlano tutti i giorni, il primo ministro come pure quello delle finanze: come il gatto e la volpe, in Pinocchio.
– Beh, l’intenzione c’è…
– Quale intenzione? Te ne dico ancora un’altra, così ti convinci definitivamente. Forse sei stato troppo all’università. In ogni caso vedrai adesso le tasse ancora da pagare in ditta, soprattutto con i contributi dei nuovi assunti…
– Dimmi, ma qui ci vuole un’altra birra.
– Vedi è mia moglie che m’informa su queste cose. Giussaniana com’è – che Dio ce lo faccia santo! – non se ne fa scappare una.
– Sì, don Giussani, il grande fondatore e conduttore di CL per più di sei decenni. Lo stanno facendo santo (lo era già), canonizzandolo dicono. Perfino Giorgio Vittadini, uno dei leader storici di CL, ha confermato (senza dirlo) nel marzo 2016 i dati comunicati da Luttwak, anche alle televisioni nel 2015. Mia moglie legge tutti i giorni Il Sussidiario online su cui scrive il Giorgio. Con una rigorosa inchiesta statistica, egli ha dimostrato – lui che è professore di statistica all’università Bicocca di Milano – secondo cui 750.000 statali italiani sono eccedentari da decine di anni.
– Cosa c’entra Luttwak?
– Il grande esperto americano di cose italiane non faceva altro che riportare all’opinione pubblica italica una ricerca statunitense che contabilizzava l’orrore di tutti questi eccedentari: ragione per cui i potenziali investitori di tutto il mondo in Italia (non solo americani), riportano ogni decisione di venire nel nostro Belpaese.
– Ma perché CL sarebbe statalista?
– Mia moglie, forse non la conosci abbastanza, mi fa cento dimostrazioni. Ma per esempio, prendiamo lo stesso caso degli statali che in Lombardia chiamano “fanigottun”: Vittadini ha immediatamente dichiarato, scritto nero su bianco nel suo articolo, che non si tratta assolutamente di licenziare questi almeno 750.000 parassiti, anche involontari, sulle spalle da molti anni però delle nostre tasse. Nota, lo stesso numero di eccedenti presentato – sempre inutilmente e nel silenzio generale – l’anno prima da Luttwak alla televisione nazionale…
Quando vai con tuo padre alla televisione dovresti almeno dirlo. In realtà gli statali sono pure almeno un terzo in più: più di un milione a ripartirsi equamente le loro spesso rare, inutili e dannose attività. Quando non li arrestano in quanto, a turno, non vanno nemmeno al cosiddetto lavoro dando il cartellino da timbrare ai colleghi: non hanno niente o quasi da fare, di veramente necessario. Dimmi tu se tutto questo non è furto colossale, anche teorizzato e organizzato. E peccato gravissimo contro natura e contro l’Eterno Creatore. Credo che tu capisca bene, malgrado tutto, perché mi son messo con voi.
– Ma non mi dire che gli statali non lavorano…
– Ti faccio un esempio corrente per darti l’idea. Ho conosciuto un vecchio e valente concorrente lombardo della mia ditta di gestione boschi che ha fatto – mi diceva – tutte le sue cinque classi elementari con due maestre: prima, seconda e terza elementare con una; e quarta e quinta, con la seconda insegnante. Ora suo nipote ne ha tre nella sua piccola classe sul Lago di Como. Tre insegnanti per classe. Perdipiù di pochissimi bambini perché la metà non è nata!

Roberto, intanto, rifletteva anche sulla parola “etico” della seconda fase kierkegardiana su cui tanto stava meditando in quel periodo divenuto per lui progressivamente cruciale.

 

 

 

Franca era stata accolta da un gruppetto di sue amiche che si trovavano al ristorante ogni tanto. Dopo aver confessato le sue delusioni sui ragazzi che s’era assunta e che aveva dovuto scaricare, le amiche avevano risposto in coro con un sonoro: “Benvenuta nel nostro club delle lamentazioni”.
Tutte si erano ridotte o a chiudere con i ragazzi, oppure a offrirsi compensazioni poco confessabili.
Proprio come la stessa Franca che continuava a bere per euforizzarsi.
Ma la maggior parte si era scelto, ancor peggio, compensazioni ideologiche, di tipo cinico. Meglio una bevutina in più che la rinuncia cosciente alla relazione totale dove può avvenire quella coniugazione originaria, generatrice e rigeneratrice, che sempre intercorre ed è creata tra il logos e l’eros. Quella stessa che la Chiesa, le ripeteva sua madre milanese, “continua a testimoniare malgrado la negazione continua che il laicismo del mondo riafferma, sia teoricamente che praticamente, anche con leggi ora assurde, scervellate e inique”.
Addirittura si è giunti – aveva constatato lei stessa, anche preparando i suoi interventi per Bruxelles – a far passare, in diversi paesi, leggi che comminano anni di galera per gli obiettori di coscienza. Contro cioè i cosiddetti “delitti di opinione” che già il diritto romano aveva eliminato, almeno teoricamente, a fondamento, due millenari fa, dai primi balbettii della libera democrazia e della civiltà occidentale.
Franca non si accontentava di mezze misure, ideologiche e opportuniste. Quelle che sterilizzano nel congelatore la relazione con i ragazzi applicando alla coniugalità il riduzionismo consueto di tipo pansessuale: sempre più copule senza vita e multiple, pur di salvare l’immagine relazionale con l’altro sesso in società. E per cercar di sfuggire all’orrenda e vuota solitudine. Insomma, la vita intesa come la famosa accumulazione orgasmatica cullata da molte ore quotidiane di musica, più sedativa che frastornante, pop e rock.
La madre di Roberto quando commentò la sua partenza a Chicago, non disse altro: “Almeno capirà le scemenze e il vuoto spinto di concetti veri e salvifici nella musica che ascolta senza capire una acca di tutto quello che strillano ‘ste band”.
Anche Franca cambiò molto il modo di prestar orecchio alla musica : praticamente non ascoltò più la disco che tanto le piaceva, da quando studiò un anno all’università di Swansea, nel Galles, le sue materie linguistiche, soprattutto di letteratura inglese. Aveva sempre ringraziato il cielo per il suo studio prioritario del tedesco che l’aveva introdotta alla poesia di Goethe, Schiller e Rilke. Aveva anche visitato il castello di Duino, vicino a Trieste a picco sul mare, dove Rilke, ospite della famiglia von Thurn und Taxis, gli inventori della distribuzione postale in Europa (da cui anche la parola internazionale “taxi”), aveva scritto liriche di cui a volte recitava a memoria stralci in tedesco. Ma soprattutto aveva conservato l’abitudine acquisita all’ascolto quasi quotidiano, anche mentre studiava, della musica classica. Innazitutto quella tedesca di Beethoven, Schubert, Schumann, Brahms, Richard Strauss o di Wagner. A lei piaceva molto – come a sua madre – anche la quinta e la settima di Bruckner. Fino all’austriaco Mahler di cui si deliziava con il suo “Adagetto”. Per non parlare delle tante sinfonie di Mozart tra cui la 40, oppure il sublime Requiem!
Certo le piaceva ancora la disco, ma solo per ballare (un po’ anche da sola). Ma al solo ascolto, lei prestava orecchio solo a quella strumentale e principalmente mitteleuropea, compresi Dvorak (la sua nona!) e Liszt (la solennità battagliera dei “Les Préludes” oppure l’avveniristica sonata in Si minore). Quanto alla musica più bella mai composta, non aveva dubbi: la 109, 110 e 111 di Beethoven! Di quest’ultima sonata per pianoforte si era innamorata leggendone il supremo commento di Thomas Mann in cui terminava con la carezza del padre ai capelli del proprio figlioletto, alla fine dell’ultima variazione…
Le sue amiche non avrebbero nemmeno saputo di cosa parlasse nel caso ne avesse loro proferito un accenno: l’avrebbero presa per una vana intelletualoidina… Invece, tutta la grande musica era per lei la pietra di paragone della bellezza pervasiva. Con sua madre ambrosiana, poteva restare pomeriggi interi, segretamente, a ricamare al punto croce in silenzio per ascoltare Tshaicovsky, Ravel o Vivaldi.
La musica rock era per lei come i cocktail da “consumare”: prima di tutto in modo giovanile, molto giovanile o senile, se non in quantità molto moderata e solo in occasione di “feste, col cipiglio automatico e quasi passivo malgrado le energie cinetiche messe in gioco.
La fine dell’estate di quel periodo si addiceva molto alla stagione della musica pop convulsiva e propria di un suo mondo ormai inerzialmente ancora apparentemente vivo.

 

 

 

Matteo si intendeva molto bene con Michele, il ragazzo leggermente handicappato mentale assunto quasi all’inizio delle attività anche per il giusto contributo statale per i giovani lavoratori disabili. Ma Michele non era per nulla disabile, aveva solo un bisogno – per così dire – di un riferimento nel lavoro molto stretto che Matteo si era assunto non senza una soddisfazione paterna. All’inizio si era fatto spiegare, invitandolo a cena per presentargli sua moglie Luciana e il bebé a casa. Così si fecero raccontare come era accaduto il suo handicap e da cosa dipendesse. La cosa sorprese positivamente Michele in quanto non gli era mai successo che degli estranei alla famiglia gli parlassero, in intimità, direttamente del suo handicap. Così, come se fosse un problema a lui esterno e di normale amministrazione. Allo stesso modo se stessero parlando delle sue capacità nel nuoto o nell’utilizzo della bicicletta “mountain bike”.
Fu così che, a suo agio, Michele spiegò, non senza iniziali difficoltà, che alla nascita, aveva rischiato di rimanere completamente soffocato dal suo stesso cordone ombellicale che gli si era attorcigliato al collo. Se la cavò ma restò alquanto ritardato nei riflessi intellettivi. La cosa si aggravò inizialmente a scuola dove i compagni, notoriamente un po’ crudeli – è cosa nota – tendevano ad escluderlo. Per esempio lo mettevano sempre in porta quando giocavano al pallone.
Fu così che, impegnandosi particolarmente, divenne un portierone tremendo, una specie di saracinesca che parava, volando, anche i tiri più angolati. Presto, a scuola se lo contendevano anche altre classi più avanti negli studi per la sua abilità e coraggio agonistico: usciva pericolosamente dalla sua porta e bloccava gli attaccanti afferrando i loro palloni più fulminanti, anche tra i piedi più abili.
La madre non conosceva suo padre ma, con la crescita confermò la sua intuizione che dovesse essere quello svizzerotto biondo con cui si era lasciata andare in una settimana sulla spiaggia. Infatti Michele era tutto longilineo con i capelli paglierini e gli occhi chiarissmi: proprio un allemanico del lago di Zurigo, si sarebbe detto. Mai la madre, cassiera in un supermercato medio, confidò ad alcuno il suo segreto. Così Michele visse nella grande famiglia dei nonni ignaro anche lui di tutto. All’assunzione come aiuto e alter ego fattuale di Matteo, la moglie di questi fu anche colpita positivamente da una osservazione che Michele fece del suo padrone Roberto: “Forse anch’io, in sette o otto anni, e con tutti i soldi di suo padre, avrei potuto essere laureato”. Michele era solo ritardato, rallentato, molto rallentato. Ma solo quasi solo mentalmente. Fisicamente avrebbe ingannato chiunque. Con il suo lavoro, praticamente raddoppiava quello di Matteo: in buona parte frutto della naturalità caritatevole del loro rapporto che si prolungava a volte anche a casa in famiglia col bimbetto.
La figura di Michele non era quindi marginale nella piccola ditta di Roberto. Alcuni clienti non si erano nemmeno accorti della sua anomalia.

 

 

 

Roberto si era ritrovato, dopo l’ultima chiacchierata con Matteo davanti alle loro doppie birre, come rivelato, constatato nella sua dimensione tutta nuova e completamente per lui imprevedibile. Ma a pensarci bene, la traccia del percorso compiuto – soprattutto nell’ultimo anno – l’aveva seguita nella trama a rovescio della sua dabbenaggine. Come mai aveva beneficiato di tante cose così belle? Da dove e perché gli erano piovute cotante felicità la cui addizione gli si presentava ora in una così abbondante e maestosa pienezza?
Aveva una bella ditta, già solida, conosciuta da molti sul mercato, nota a quasi tutti. Aveva un monolocale già suo di proprietà che lo rendeva indipendente. Aveva un padre meraviglioso che non solo lavorava con una intensità e intelligenza sapiente oltre l’età della sua pensione da anni, ma anche con una visione a lui più o meno sconosciuta e più di ogni altro esempio. Aveva una madre di cultura globale e religiosa senza paragoni totalmente dedita alla famiglia, al marito. E a lui stesso per cui aveva sostenuto sforzi economici di gran lunga superiori – per il momento – a quelli predisposti per le sorelle per cui si chiedeva come poter ricambiare a breve termine. Aveva un socio, Matteo, un operaio alacre e anche colto, liberale e perfettamente informato, con una moglie fantasticamente intelligente e materna non solo per il suo piccolo ma anche per Michele diventato, per la ditta, un punto di forza insperato. Aveva due sorelle che l’adoravano e che non gliene volevano per i privilegi che aveva accumulato. Aveva, ne era cosciente, un potenziale di sviluppo economico e non solo incomparabile con il futuro di qualsiasi suo amico. Aveva una donna magnifica che aveva accettato la sua dedizione e che l’aveva portato, quasi senza accorgersene, ad una condizione esistenziale che non fa che sorprenderlo per la sua pienezza non programmata.
Cosa aveva fatto volontariamente e personalmente per tutto questo?
I conti non gli tornavano. Il suo razionalismo contabile con la partita doppia fatta dai suoi meriti – poca cosa, molto poca – da una parte e, dall’altra, tutta la dovizia, la ricchezza della sua lunga lista. La grazia, ecco la grazia. Si accorse di aver scelto questa parola non sua. Era quella di sua madre appena parrocchiana che, semplicemente, perseguiva un progetto comunque grandioso. Con questa lei sottolineva il concetto inimmaginabile di gratuità che l’uomo incontra allorquando l’amore si struttura nella sua vita grazie alla sua logica imprevedibile, perché sovrannaturale.
La lontananza della sua ricerca abituale da questa dimensione che ora vedeva nell’atteggiamento e nelle scelte di Alberto, Matteo e sua moglie, Michele, le sorelle e di… Franca lo rendevano ancor più pensosamente stupito. Pensava all’idea che “ religava” tutto questo, compresa la religiosità di Kiekegaard. Cosa doveva, a questo punto fare lui con la sua nuova coscienza? Con la sua incipiente nuova esigenza di volontà?

 

 

 

Franca era uscita pensosa dall’ultimo pranzo con le amiche. Anche lei pensosa come Roberto. Le posizioni delle ragazze, benché unanimi, non la convincevano assolutamente. Le loro decisioni tra il riduzionismo e la chiusura totale non la soddisfacevano per nulla. Anzi, più le analizzava e più ne aveva anche orrore. Come pensare di fingere che la “soluzione” dell’uso parziale e alternativo del maschio subordinato, al sesso consumistico e sterilizzato a tutto, possa essere anche solo concepito? E, del resto, come immaginare la rinuncia pure e semplice alla relazione con l‘uomo per incanalarsi in una dimensione autoerotica con le proprie compagne, fatalmente nella teleologia inevitabilmente e teoricamente di tipo lesbico? Franca ne aveva sensazioni orripilanti sia per l’una che per l’altra. Consideva che queste  sensazioni raccapriccianti costituivano, in negativo, i soli residui di umanità nella femminilità disponibile.
Del resto come concepire una famiglia senza uscire dal solipsismo sessuale nel rapporto con l’uomo riduttivo o addrittura negato? E la propria creaturalità? E quella dei maschi in generale? E la visione globale della famiglia come anche piccola Chiesa domestica? E la missione salvifica attribuita oggi alla famiglia come ai monasteri nel medioevo?
Franca si poneva le questioni che avrebbe anche posto a Bruxelles. Ma le stesse domande erano ora anche le sue. Non poteva non porre tutti questi interrogativi all’interno della sua relazione con Roberto. Si rendeva conto però che a tutte queste questioni, la laicità, la sua ideologia laica, non solo non risponde ma nemmeno le immagina o le cataloga come fondate.
Aveva così realizzato che quelli erano i temi da cui da più di un decennio lei cercava di sfuggire. In modo simmetrico a quelli che i ragazzi riducevano fino a farli sparire in modo da ridurli alla loro abituale inanità.
Come porsi allora i problemi escatologici dell’umanità relativi alla propria esistenza e allo stesso tempo applicarsi a negarli con le ideologie nichiliste e relativiste?
Anche la sua funzione di delegata a Bruxelles – ma pure in Italia – aveva l’aria così di essere sostanzialmente infondata o scardinata.
“Eccomi così, ancora una volta, posta davanti al mio problema classico e sempre di ritorno: quello della mia fede”, si trovava a concludere tra sé e sé.
Ben sapendo che questa volta non sarebbe dipeso solo da lei ma anche da Roberto e, naturalmente, dalla sua relazione con lui.

 

 

 

Era domenica mattina e, dopo essere saliti in cima alla collina arrivarono al grande parcheggio del Santuario di Loreto. Roberto e Franca, pur essendo della regione non erano mai stati in quello che era uno dei più grandi e famosi santuari del mondo costruito anche con le “sante pietre” della casa di fronte alla Grotta di Nazaret. Ci erano arrivati in macchina su iniziativa di Roberto che, volendo parlare di sé a fondo alla sua amata, voleva portarla una giornata intera, anche simbolicamente, nella basilica di cui aveva tante volte sentito parlare. Era da più di sette secoli che se ne parlava anche in tutto il mondo. Era stata denominata “l’altra metà di Nazaret” dagli innumerevoli “pellegrinaggi lauretani”. Da secoli venivano diretti, dal mondo intero, verso la bellissima e imponente basilica rinascimentale: bastava guardare anche le molte targhe delle macchine e i numerosi pullman esteri parcheggiati.
La prima cosa da cui furono stupiti appena scesi dalla 4×4 fu il panorama verso il mare a quattro-cinque kilometri, come piaceva a Roberto.  E la vista più lontana di Ancona, in fondo a nord-est, tra le dolci colline tutte uliveggianti e ben coltivate: uno splendore incantevole. Ma la vera sorpresa fu, a mano a mano, la vista di tutto il complesso monumentale dell’ingresso e, soprattutto, delle sculture in marmo finemente in bassorilievo con le storie evangeliche della Vergine Maria e Gesù. La casa, la vera casa di Dio era stata ricostituita all’interno del grande tempio dietro l’altare. I pellegrini facevano la fila per visitarla.
I nostri due innamorati si erano trovati inginocchiati con altri pellegrini ad una messa solenne appena iniziata: erano le undici e trenta. Avevano previsto di andare al ristorante dopo una visita generale e invece si trovarono a farsi il segno di croce e immersi intensamente nella preghiera dei fedeli. Soprattutto Roberto si sentiva intento e con cura come se il discorso che si era prefissato di fare a Franca fosse tutto implicito nei suoi gesti, nei loro gesti, nell’inginocchiarsi, alzarsi e sedersi all’ascolto della omelia a quella assemblea eucaristica.
Il momento della consacrazione fu molto intenso nel quadro architettonico della “Santa Casa” e nel silenzio raccolto dell’assemblea. L’altro momento struggente fu alla distribuzione della Comunione: i due “fidanzati” si ritrovarono immobili e, come imbarazzati per l’ormai compresa superfcialità con cui avevano consumato un percorso senza osservarne e goderne tutta la bellezza e profondità: in due parole si erano sentiti “in peccato”.
Dopo essersi segnati alla benedizione finale, si diressero lentamente verso l’uscita e il ristorante situato non molto lontano dal portale, accanto ad altre trattorie e bar, in silenzio e fra di loro uniti come non mai.
Franca aveva seguito alquanto stupita tutta l’operazione, dall’invito alla giornata fino alla destinazione del ristorante con la sorta di ritegno pensoso e piuttosto inabituale di Roberto. Tutta tesa, era stata però rassicurata dalla messa seguita insieme. Fu lei a comiciare a parlare.
– Negli ultimi tempi, mi sento molto in sintonia con il temperamento e la cultura di mia madre, ambrosiana almeno quanto milanese. Trovo che lei esprima col suo sentimento e pratica religiosa una mia idea di cosa rappresenti la politica e lo statalismo.
– Non ti ho ancora detto nei dettagli di quanto ho scoperto nel liberalismo profondo e preciso del mio socio Matteo. M’ha confidato che è sua moglie che gli dice e lo istruisce su tutte le cose religiose, politiche e sociali.
– Sua moglie? Come si chiama, la conosco appena.
– Luciana. Sembra sia un genietto della cultura. La devi frequentare. Anch’io la conosco da poco, è veramente notevole.
– Ma se è una casalinga.
– Sì ma in passato era di CL, sai Comunione e Liberazione, da cui è uscita perché, anche se è una comunità mondiale (l’avevo anche incontrata negli Stati Uniti), è diventata però statalista. Non proprio tutta, ma certamente la sua attuale dirigenza e una parte importante dei suoi aderenti. Lei è esperta e competente tanto in cose religiose che politiche.
– È quello che ti stavo dicendo di mia madre e di me. Vedi la sua religiosità è tanto radicale quanto la sua sensibilità sociale e politica. Anzi, mi sembra che, ad un certo punto, le due dimensioni si sovrappongano e si identifichino. Non si può essere religiosi e non liberali. E viceversa, nel senso che quando si è liberali si è intrinsecamente religiosi anche se in modo non esplicitamente cristiano.
– È esattamente quello che ho capito anch’io di Matteo e, soprattutto, di Luciana. Assolutamente devo combinare che ci invitino a casa loro come han fatto da parecchio con Michele, sai l’operaio un po’ ritardato – parecchio ritardato – ma gran lavoratore, una specie di super garzone di Matteo.
– Un po’ l’avevo capito. Ora che me lo dici, penso che ci sia anche dell’amicizia con Matteo.
– Credo di sì e non solo da parte sua: è Michele che è pure in adorazione di Matteo. Ma soprattutto è la loro coppia familiale che s’è umanamente assunta il giovane disabile mentale con grande generosità e reciprocità.
– Bravi! Ti dicevo di mia madre. La sua razionalità, tipicamente nordica, milanese, è intrinsecamente alacre, molto attiva. E in sovrappiù, anzi intrinsecamente, globale. Per lei, non si tratta di una religiosità intimista, come quella di moltissimi cristiani che, da una parte sono bigotti e molto spiritualisti e, dall’altra, si fanno guidare passivamente e globalmente dalle opinioni della televisione, cioè del mondo più materiale e materialista.
– Devo dirti che a me è successo, se così posso dire, il contrario: l’esperienza liberale, sul piano economico e politico, mi si è presentata sempre di più come religiosa. Religiosa nel senso che tutta la realtà della vita è fatta di religiosità. In un tutt’uno. Vedi sono stufo di concepire tutti gli aspetti della mia esistenza divisi e separati. E senza mai ritrovarmi con me stesso sia nel lavoro, che nelle mie amicizie, in famiglia e con… te.
Per cui ci ho pensato parecchio, ti faccio così tre proposte, cioè una sola. O meglio che sono riassumibili in una unica…
– Cioè, non capisco?
– Arrivo subito.
Primo: ci sposiamo, anche e innanzitutto religiosamente, fra non più di due mesi. Secondo: cerchiamo una bella casa qui a Loreto, in questa stessa parrocchia, dove la “Santa Casa” possa diventare anche la nostra dimora divina. Terzo: ci mettiamo di gran lena a fare l’amore e a fare figli se Dio vuole, solo dopo sposati, sacramentalmente, prendendoci subito tre affiliati a distanza: uno in Asia, uno in Africa e uno in America Latina. Mi sono già interessato come fare: presso l’associazione AVSI, sempre di CL, si può fare subito, prima ancora dello sposalizio con tre bambini o adolescenti. Poi mettiamo in moto anche una adozione in Italia.
Il tutto però con un fidanzamento casto, senza sesso fino alla cerimonia: nella ritrovata verginità totale che sempre i cristiani devono avere, sia sposandosi anche dopo il matrimonio sempre amorevole, aperto e fecondo; sia nel caso di consacrazione sacerdotale o monacale. Tutti vergini, cioè creature riconoscenti a Dio creatore di tutto.
– Ma…
– Ti prego, non interrompermi, ti voglio proporre tutto il pacchetto prima di offrirti l’anello di fidanzamento, dopo il tuo consenso, spero.
Innanzitutto questo pomeriggio cerchiamo casa, una bella villetta qui su questa collina benedetta e che guarda verso il mare. Ho già preso appuntamento fra due ore con una coppia di appena divorziati che vendono la loro casa con piscina e più di mille metri di terreno. E poi, dopo sposati, partire subito in viaggio di nozze in Terra Santa: nel paese della “terra promessa”, tra le più belle del mondo. Senz’altro la pù bella: c’è tutto, il paese di Betlemme dove è nato il Salvatore (!); la montagna della Trasfigurazione (Tabor); il deserto delle tentazioni; il lago pescoso di pesci san Pietro: Tiberiade; la terra rigogliosa di Canaan; il monte degli ulivi della Passione; il fiume Giordano dove perfino Dio si è fatto battezzare; tutto il grande paese delle tre religioni monoteiste e, infine Gerusalemme dove la Trinità è stata crocifissa e dove è resuscitata nella persona di Cristo.
La destinazione cioè più ricca in quanto piena di orme dove è passato Gesù per salvare non meno che noi uomini. Fu così “spedito” a Nazaret dove l’Angelo Gabriele è venuto a proporre l’Annuncio a Maria. Vale a dire qui a Loreto nella metà della “Santa Casa” come stamattina abbiamo visto e come ci aspetta di vederne anche l’altra metà. Ho finito.

Franca, con le lacrime agli occhi, era quasi senza respiro.

 

 

 

Il pomeriggio, la scelta era già fatta. La casa visitata con piscinetta sembrava loro una reggia. Roberto era raggiante. Franca talmente ancora emozionata che non riusciva a stare nella sua pelle. Pensava talmente tante cose che le sembrava di non pensarne più nemmeno una. Al progetto di Roberto così perfetto e completo non aveva nulla da aggiungere o da levare. Le sembrava di trovarsi in paradiso compiutamente già realizzata. Nulla avrebbe potuto sminuire la sua gioia. Nemmeno la vista della triste coppia di proprietari che nemmeno capivano la loro determinazione all’acquisto della già ex loro villetta. Roberto la stava trasformando mentalmente in una futura ristrutturazione per la stagione seguente. Aveva previsto anche una mezza dozzina di argne in fondo al giardino per le laboriose api che si sarebbero subito messe al lavoro alacremente senza inutili e ormai dannosi scioperi “sindacali”. Ma a Franca la casa andava già bene così. Il suo primo pensiero era di andare a farsi togliere lo sterilet, quel “coso” estraneo che l’aveva sempre ossessionata senza veramente saperlo e che ora le sembrava insopportabile: la sua sola cosa che la rendeva fisicamente imperfetta.
Soprattutto le sembrava di essere uscita da un pozzo nel quale aveva pensato di poter continuare a vivere indefinitivamente nelle sue corte costruzioni tutte argutamente pensate ma nessuna veramente soddisfacente. Le sue amiche al ristorante, i suoi Margarita, le sue festicciole ben organizzate senza economie, le sue disco indiavolate in danze incestuose, le sue corse per rendersi perfetta e completamente cosmopolita. Tutto le appariva come una giostra vorticosa su cui aveva girato senza meta e follemente. Chi poteva ringraziare di cotanta grazia?
Ormai però aveva visto Chi ne era l’autore. Così già si vedeva nella parrocchia del Santuario di Loreto eternamente riconoscente per la nuova vita da cui era stata invasa inginocchiandosi nella basilica più bella e densa che avesse mai visto o che potesse vedere. In quel mistero che l’aveva tenuta legata con tutti quegli sconosciuti di fedeli venuti da chissà dove alla ricerca della sua stessa salvezza. E poi pensava a sua madre.
Ecco, doveva subito andare a farsi battezzare. Che era questo il solo fatto che poteva riconsegnarla alla nuova esistenza spirituale che l’aveva invasa ed in cui era stata strasportata. Doveva dirlo alla mamma che aveva anche disobbedito alla Chiesa per la sua libertà! E poi, nel disordine accumulato pensava alla 111 di Beethoven: ecco da dove aveva potuto strappare le note più belle che avesse potuto comporre nei soli due movimenti della sonata, ultima delle trentadue per pianoforte. Doveva assolutamente andare a dire tutto questo ai suoi genitori: non sapeva come ma subito. Alle sue amiche. A Bruxelles a Juliette. A Luciana per ringraziarla senza ch’ella capisse forse molto il perché: ormai lei apparteneva all’unità con Matteo che aveva legato tutti con la ditta, con Michele, fino al figlioletto della coppia. L’avrebbe ormai guardato con altri occhi. Avrebbe prefigurato i suoi bambini che aveva tanto desiderato senza mai confessarselo. Anche i tre bambini dell’AVSI le sembrava di averli già identificati, sapeva che i suoi soldi avrebbero fatto pure la loro felicità a tante migliaia di kilometri. Perfino l’adozione italiana, la immaginava fatta col bambino che avrebbero adottato e che già scorazzava nella sua nuova casa. Come pure in preparazione alla sua prima comunione in parrocchia.
E poi, accavallata, l’immagine di trovarsi sul prato scosceso vicino al grande lago di Tiberiade dove Gesù aveva pronunciato il discorso della montagna con le sue migliaia di fedeli dimentichi della loro fame fino alla Sua moltiplicazione dei pani e dei pesci.
Nel frattempo, Roberto negoziava il prezzo della casa fino all’accordo che fece felici per un momento anche la ex coppia. Li aveva visti subito insanamente stravolti senza conoscere la loro storia: sentì per un momento nei loro confronti una grande pena impotente per cui pregò un istante. Si sarebbe preoccupato di fare tutte le pratiche del suo matrimonio dall’indomani, lunedì mattina. Non avrebbe più perso un solo minuto nella sua vita troppo scriteriata e scialacquata. Avrebbe cominciato dalla confessione col parroco addetto del Santuario portando anche Franca, anche per mettere a sua diposizione la nuova coniugalità della loro relazione, in quanto autorità ecclesiale di riferimento. A lui che si era consacrato in quanto prete servitore di Dio. Avrebbe chiesto la benedizione della loro unione nel sacramento del matrimonio assicurando la loro castità fino alla loro amministrazione della, per loro, molto solenne cerimonia (di cui erano loro stessi ministri). Con i loro padri e le loro madri in prima fila accanto ai propri testimoni Matteo, Luciana e Michele già designati di fatto e, forse, Juliette.
La festa del loro matrimonio si sarebbe svolta prima nel Santuario per farsi accogliere dalla comunità locale e poi nella nuova casa, per tutti gli intimi e pure lontani. Anche allo stato di così com’era la villetta: semplicemente in una grande festa generativa e rigenerativa a partire dalla loro fede attiva e dal loro amore reciproco.
Tutto questo poteva essere facilmente realizzato affittando l’appartamento di Franca e il monolocale di Roberto.
Il tutto si sarebbe indirizzato verso il loro inginocchiarsi a Gerusalemme, su al Golgota, dove Gésù accettò di spirare inchiodato sulla Croce per permettere agli  uomini di essere liberi come  Roberto e Franca lo erano. Liberi.

 

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