Burnout e bore-out, due sindromi simmetriche del lavoro che gli psicologi detti moderni hanno tendenza, come abitualmente, ad attribuire in modo psicologista, fatalmente falsificato, ai processi mentali. Mentre essi sono solo epifenomeni fondamentalmente spirituali e politico-economici.

Nel febbraio 2016, un curioso articolo sul lavoro, nel settimanale Le Vif-L’Express a Bruxelles, era centrato sul burnout e il bore-out. Il primo fenomeno è classificato generalmente come una sorta di malattia del troppo stress da lavoro: la cosa riguarderebbe un buon 10% dei lavoratori (in realtà questa percentuale dovrebbe essere anche più che raddoppiata). La sindrome del bore-out invece significherebbe un’altra “anomalia mentale” che porta piuttosto allo sfinimento per noia, per mancanza di… lavoro. Fatto annunciante, come già accaduto, anche il futuro e fatale licenziamento dal posto di lavoro. Del quale sarebbero colpiti in prospettiva, per vari motivi, quasi un terzo di detti attivi. Come è norma nel pensiero unico contemporaneo, tutto viene descritto come una invadente malattia soggettiva, dunque una sorta di patologia individuale “personalmente curabile” con medicine o con un trattamento grosso modo psicanalitico. Il cosiddetto decimo dei lavoratori affetto da burnout sarebbe quasi totalmente costituito da piccoli imprenditori di mini-imprese (che costituiscono la grande maggioranza  nell’economia occidentale!) oppure da rari lavoratori professionalmente responsabili che devono far fronte ad un carico di lavoro (assumendoselo totalmente) e ad un impegno di garanzia diventato progressivamente enorme, giudicato anche “insostenibile”. Cosa peraltro ben conosciuta senza che si debba quantitativizzarne  l’esistenza con inchieste statistiche. In sovrappiù, la crisi economica dichiarata negli ultimi dieci anni, ma galoppante progressivamene da più di una trentina, non ha fatto altro che aggravare ancor più questo stress emblematico e tradizionalmente ormai molto conosciuto. La tendenza tragica a definire queste  “vittime” secondo siffatti giudizi statalisti della nostra era, come “pazzi o malati”, è propria del secolo scorso in cui l’ideologia si è impadronita, in modo nichilista, della cultura detta moderna. In realtà, essa è solo molto modernista! Che si tratti di troppo o di poco lavoro, la causa è la gigantesca depressione economica che si traduce per gli uni e per gli altri in comportamenti simmetrici e opposti. Le vittime del burnout sono diventati in Europa artificialmente schiavi della produttività, a causa della concentrazione dei livelli pazzeschi dell’ipertassazione dello Stato sovradimensionato e statalista. Il tutto scaricato sull’impresa e sul costo di lavoro. Va da sé che questa devastante sorte non è riservata agli statali che continuano indisturbati ad essere clamorosamente eccedentari quantitativamente per molti milioni sul nostro Vecchio Continente. Che si provi, dunque, a cercar di calcolare l’inutile e immorale costo totale di questa criminale devastazione sociale e sterile sulle spalle delle attuali e future generazioni!

Così mentre è immediatamente comprensibile il perché del burnout (tassazione iperbolica, dunque cumulo di carichi stressanti concentrati sui piccoli imprenditori, sulle loro imprese e su molto rari impiegati oppure operai soggettivamente e virtuosamente coscienziosi), per il fenomeno del bore-out, invece, la comprensione non è subito evidente. In corrispondenza della penuria delle attività e della rarefazione delle vendite – vale a dire della crisi con le sue recessioni economiche – si constata paradossalmente una depressione produttiva profonda che ha tendenza a invadere ogni persona, con un’accidia così anche devastata e tetanizzata. Il lavoro in effetti non è un mezzo ma un fine, come invece  affermano purtroppo nei fatti i sindacati e la maggior parte dei partiti politici, da più di cinquant’anni.
La concezione culturale delle attività professionali – a partire dal momento in cui sono diventate nella secolarizzazione funzionalmente reificate, una sorta di slot machine per guadagnare semplici redditi esclusivamente materiali – ha perduto quasi ogni motivo spirituale e morale. Ragione per cui, se non si è stimolati induttivamente dall’abbondanza intrinseca della vita economica, si cade facilmente nell’inanità e nella noia vegetativa. Quando si è volontariamente dimenticato che il lavoro è la quotidiana attività che permette di aggiungere valore a quella della Creazione, dunque anche a se stessi e alla sua stupefacente bellezza e grandezza vocazionale, ci si perde nell’accidia di cui non si trova neanche più il termine desueto in molti ultimi dizionari. E ciò mentre questa molto classica accidia è pervenuta ad essere pure il peccato capitale più diffuso della nostra epoca. Quello che ci vorrebbe oggettivamente tutti schiavi pseudo edonisti. E miserabilisti di un futuro senza avvenire in quanto carente o privo anche di bambini e di vere famiglie, da più di cinquant’anni. Si è ridotti infatti a una visione della vita che può prevedere solo il soddisfacimento pretenzioso, peraltro anche economicamente impossibile, di tutti i desideri resi ciechi e sprovvisti della grandiosa progettualità globale. Quella dell’incommensurabile disegno divino, che ha alimentato tutta la civiltà occidentale scaturita dal destino trascendente del cristianesimo.

La concezione del lavoro da parte della DSC (Dottrina Sociale della Chiesa) è fondata sull’infinito amore di Dio come cooperazione tra la Trinità e l’umanità libera nella creazione continua della Vita.
Siccome questa feconda visione ontologica è stata (e continua ad essere) sconvolta e negata dal nichilismo incredulo o scettico diventato apparentemente maggioritario, l’uomo del nostro tempo ha difficoltà a giustificare la felicità della sua creazione laboriosa. Anche molto piccola o modesta che sia. Oppure ben grandiosa e piena di senso strategico. Egli diventa dunque riduzionista, utilitarista e fannullone. Il “Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa”, la sintesi che riassume sinotticamente l’essenziale del grandioso patrimonio della sapienza sociale cristiana, pubblicato nel 2006 dal Vaticano, ci ricorda l’episodio famoso dei talenti molto sottovalutati nel suo numero 259, intitolato “Gesù uomo al lavoro”, nel Vangelo di san Marco: “Gesù condanna il comportamento del servo fannullone che nasconde sotto terra il talento ricevuto (cfr Mt 25, 14-30) e loda il servo, fidato e prudente, che il padrone trova intento a svolgere le mansioni affidategli”.
L’attaccamento al lavoro e alla vita attiva dell’uomo contemporaneo è misurato anche dalla mediocrità di molto insufficiente della natalità nella quale ha fatto cadere la sua famiglia ormai disarticolata relativamente alla sua naturale riproduzione umana durante le due ultime generazioni. La cosa ha ingenerato, per conseguenza, la colossale crisi economica che attanaglia il mondo moderno a causa dell’inevitabile e corrispondente penuria della domanda detta interna nei mercati. Negli ultimi tempi, si comincia appena a capire l’inconsistenza surreale dell’ideologia malthusiana che considerava già eccedentaria la popolazione dell’inizio Ottocento mentre essa era solo un quinto (!) di quella attuale sulla Terra. Ecco la ragione di base del sedicente bore-out : è dall’ideologia illuminista del ‘700 che l’uomo si è perso, allontanato e deviato dalle verità naturali e semplicemente immediate. Burnout e bore-out costituiscono così le ultimissime denominazioni nominalistiche delle perversioni ideologiche – quindi economiche – che continuano a mistificare tutta la cultura comportamentale e l’economia della nostra epoca.

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