Nella mia intervista alla radio, la verità sull’utilità dei fallimenti

Ieri è morto Georges Pradez, uno dei cronisti storici della RTBF, la radio nazionale francofona del Belgio, fin dagli anni inizi ‘60. La notizia mi è giunta alla radio mentre ne ascoltavo il giornale andando al lavoro.
Era nato nel 1939 : la cosa mi ha subito colpito. Era di solo cinque anni più vecchio di me…
Lo avevo conosciuto una quindicina di anni fa all’occasione di una lunga intervista che mi aveva fatto, in diretta, in una rubrica quotidiana che teneva dalle 13h30 alle 14. Giornalista molto popolare, aveva una capacità rara di entrare in rapporto diretto, profondo e amichevole praticamente con tutti i suoi ospiti.

Mi aveva invitato in quanto segnalato come imprenditore che aveva avuto successo, anche come emigrato.
Ma, soprattutto, era quello il primo grande periodo delle crisi economiche dette post-moderne. C’erano già molti fallimenti di aziende che spaventavano parecchio l’ancòra tranquilla velocità delle imprese del paese e delle sue inevitabilmente e sgradevolmente sorprese popolazioni.
Si trattava della crisi specifica della «bolla informatica», del 1997-99.
La novità della mia impresa Eurologos consisteva, fondamentalmente, nel fatto che all’epoca avessimo iniziato la nostra glocalizzazione, vale a dire la prima internazionalizzazione delle nostre agenzie fuori dal Belgio, naturalmente: all’epoca, in Germania, Italia, Grecia e Francia…

Ci fu una una domanda che Pradez mi rivolse e che era, va da sé, di assoluta attualità.
«Cosa ne pensa della serie delle molte imprese che falliscono – cito a memoria, naturalmente – e che stanno creando tanta disoccupazione?».
La mia risposta scioccò immediatamente il gioviale intervistatore, grande comunicatore che ne stava intervistando uno, supposto omologo in piena attività sui mercati. Siccome i fallimenti, avendoli sempre visti come eventi inevitabili di aziende che non corrispondevano più i bisogni del mercato, li giudicavo assolutamente come positivi, ho risposto secco! Ben altri e diversamente tragici sono gl’innumerevoli fallimenti attuali provocati dalla crisi strategica e strutturale, per denatalità e debiti pubblici (mancanza generalizzata e colpevole di domanda!).
Il mio giornalista quasi era sbiancato: così, per rimediare, ho rincarato la dose spiegando semplicemente.
«Un’azienda esiste solo in quanto è di pubblica utilità per i mercati. Cioé se i suoi prodotti o servizi siano, o meno, utili (o indispensabili) in permanenza ai clienti che ne utilizzano i vantaggi».
Così, quando questi servizi non sono più competitivi, oppure quando questi non siano più percepiti come tali, il fallimento o la sparizione dell’impresa non può essere che positiva: innanzitutto per i consumatori e, poi, per i concorrenti che potranno così far meglio nel mercato residuale lasciato libero…».

La mia spiegazione, diretta, senza dire alcunché rispetto a quanto (generalmente) già conosciuto come valido e inaggirabile sul piano economico, sembra che non fosse mai stata detta (o quasi) alla radio nazionale (molto di sinistra). Pradez, sulle prime alquanto imbarazzato, dovette prendere atto della ragionevolezza anche contabile della mia risposta. E nel giro di qualche secondo dovette convenire con la tesi inappuntabile propria all’impresa privata che solo dai propri clienti ricava la sua ragion d’essere.
È nella velocità di ripartita e di riconoscimento della realtà, che il talento di un giornalista si manifesta veramente.
Il cronista Pradez, funzionarizzato e fatalmente fuori mercato, nonché molto lontato dagli imperativi economici esclusivamente pagati dai clienti, fu come al solito, rapido nella cosa.
Quanto ai disoccupati, se lo statalismo non ci mette lo zampino (in questo caso solo per il cosiddetto accompagnamento sociale), ritroveranno rapidamente il loro lavoro. Anche in altri settori. Oppure, come mille volte si era già prodotto, creando una nuova, necessaria e personale azienda.

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