È legittimo definire come « abbrutiti » i nichilisti e i relativisti ? Si tratta di un insulto o di un complimento virtuale? Ma non si è tutti degli abbrutiti?

 A volte (troppo?) utilizzo al plurale «abbrutiti» per definire l’oceano dei nostri contemporanei che, rifiutando la loror condizione di creature, negano la loro appartenenza trascendente a Dio.
Il fatto di rivendicare la supposta autonomia presunta e presuntuosa da ogni dipendenza, di autosoddisfazione come creatore onnipotente mentre si è tutti nati in attesa di diventare polvere, può solo diminuire la bellezza stupefacente di ciascuno. Questa diminuzione certa, questa sottrazione alla natura, alla realtà esistenziale, può solo essere situata nel processo di falsificazione della verità: dunque, di abbrutimento. L’uomo contemporaneo che dimentica nella continuità la sua origine, che si lascia affascinare dall’idea riduttiva della sua sedicente potenza tecnoscientifica, è già diventato meno bello.
Il fatto di constatarlo, di fissarlo in questa falsificazione primaria, di descriverlo mentre sta deturpando la sua esistenza intrinseca, è giust’appunto richiamarlo alla sua reale dimensione splendida e intangibile di perfezione unica. Il suo primo atto, che dovrebbe essere di riconoscenza stupita e felice di essere stato strappato dal niente per essere consegnato ad una esistenza eterna piena di senso e di possibilità infinite, è abitualmente negata da una ideologia che annulla ogni significato possibile in una reificazione, una cosificazione, di tutta la realtà. Questa, invece, richiama sempre a più che a sé stessi. Ad un’«alterità» superiore e incomparabilmente più bella. L’abbrutimento altro non è che la negazione, anche esplicita, di questa verità religiosa irréduttibile.

 Parlare di abbrutiti per raccontare i nostri congeneri degradati, coscientemente (atei) o incoscientemente (superficialmente riduzionisti e relativisti), è come pro-vocare, ricordare ad una vocazione tradita, ad una bellezza maltrattata, a una verità ignorata, disconosciuta o sporcata, disonorata.
Certo, abitualmente, utilizzare l’epiteto abbrutiti suona come un insulto facile e gratuito.Ma se ci si pensa bene, si deve apprezzare il sostanzialmente piccolo rimprovero fraterno o paterno per l’errore più comune di ogni uomo, quello nel quale si cade cento volte al giorno e che ci fa riconoscere nella nostra piccola e fragile umanità. Da questo punto di vista, si è tutti abbrutiti. Noi cristiani chiamiamo la cosa piuttosto semplicemente il peccato. Si è tutti così peccatori e peccatrici.

 È con la parola abbrutimento che ho cominciato il mio lessico di 275 termini, nel mio ultimo saggio pubblicato nel 2013 come terzo libro della mia piccola trilogia sul lavoro. L’ultima parola scelta è stata emblematicamente welfare per cercar di mettere in evidenza la verità del rapporto eterno tra un certo effetto e la sua causa. Bisognerebbe sempre amare la Chiesa, non fosse che per questo costante ricordo che essa ci rivolge alla verità. La quale quasi mai è di consenso spontaneo, piacente e direttamente «popolare».
Che ci si ricordi anche delle parole, persino apparentemente sgradevoli, con cui don Giussani aveva cominciato a procunciare il suo intervento ad un congresso celebrativo su Leopardi, nella villa natale a Recanati: «Caro Leopardi, ti sei sbagliato sul concetto di ragione. Il tuo concetto di ragione è stato distrutto in quanto era rattrappito»*. Si sa che era stato invitato a questa commemorazione leopardiana come uno dei più grandi ammiratori e divulgatori del poeta-filosofo anche più grande della modernità culturale (non solo italiana), appena dopo Dante. In sovrappiù, don Gius aveva situato questa interpellazione familiare al suo arrivo in Paradiso (dopo un secolo e mezzo) dove l’aveva già posto, in ogni caso, come grande intellettuale non veramente credente ma sempre alla ricerca del senso religioso al suo più alto grado. Colui che afferma dunque la verità, sempre la verità, ha diritto all’immancabile misericordia: anche gli abbrutiti relativisti, vale a dire tutti, dovrebbero essere d’accordo.

 *Questa citazione è tratta dall’ultimo numero di novembre di Tracce, la rivista in molte lingue di Comunione e Liberazione.

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