Diritto al lavoro? Piuttosto dovere ontologico di lavorare! Il diritto al lavoro non dovrà mai veramente esistere.

Nel primo discorso del nuovo presidente della Repubblica italiana, Mattarella, come nei media e nella bocca ben sazia dei sindacalisti, si incontra questa formula programmatica e standardizzata di “diritto al lavoro”. Tutta la sinistra europea (ma anche di centro e a volte di destra!) sostiene questa formula completamente acefala. Ormai, quando sento la parola “diritto” mi si drizzano le orecchie: la litania dei diritti da più di una cinquantina d’anni dilaga con una intensità tale che il mio spirito, piuttosto pigro, si sveglia. Viviamo in una società e in una era di diritti. Tutto è diventato automaticamente un diritto ed ogni minoranza ne reclama a grandi quantità. A loro volta queste nostre società ripetono sempre che sono costituite da innumerevoli minoranze. Per cui i nostri parlamenti occidentali non fanno altro che legiferare per accontentare le innumerevoli richieste tutte qualificate di diritti urgenti. Il clientelismo elettorale lo esige. Come far fronte? Semplice, grazie all’ideologia già chiamata dal presidente Reagan dell’”asimmetria”. Questa era ed è fondata sullo statalismo che si carica di pagare tutto con i debiti pubblici e le nuove tasse saldando anche i conseguenti e colossali interessi. Questa visione edonista a gogo, così definita con sapienza dal presidente californiano, era giudicata dalla sedicente intellighenzia europea – come abitualmente – totalmente stupida, anche se immoderatamente praticata. E finalmente essa s’è rivelata ancor più catastrofica di quanto detto e predetto dal presidente americano. La crisi economica attuale ne è la prova: non si riesce a rimborsare nemmeno un euro di questo debito anche a causa dell’obbligo di pagare tremendi interessi annuali. L’accumulo di questi diritti, per definizione infiniti nell’illimitato, è diventato la seconda causa recessiva o stagnante di questa crisi, dopo quella della denatalità che ha letteralmente schiacciato la domanda interna dell’Occidente (il vescovo di Ferrara, Luigi Negri, ha appena dichiarato che “senza figli, niente fine crisi!”. E questo ad onta degli annunci reiterati da diversi anni secondo cui essa sarebbe terminata (da parte di politici, economisti e futurologhi): ciò che è terminata, tutt’al più, è la recessione. Laddove si troverebbero ripresette calcolate in rapporto a recessioni importanti degli anni precedenti come in USA, si dovrebbero mettere in conto sia deficit di budget del 9% (nel 2013 in UK), oppure una molto anziana e solida struttura economica liberale e non statalista (anche se attualmente in via di caricamento di un welfare molto pesante) come in America. Insomma, l’ideologia dei diritti sta correndo anche nei paesi più

Ma queste due parole, diritto al lavoro, sono forse in qualche modo contrarie alla libertà e all’economia? Il presidente Mattarella, per esempio, ha anche parlato di diritto all’istruzione di cui ogni società deve legittimamente caricarsi nell’educazione alla vita adulta di tutta l’infanzia e la gioventù. Naturalmente per garantire questo diritto, si deve disporre di un dovere reciproco e simmetrico: il dovere di lavorare per produrre la ricchezza necessaria alla scolarizzazione… Non esistono diritti in natura senza che qualcuno ne assicuri l’esistenza. Se si vuole per esempio sostenere gli handicappati – principio sacrosanto di civiltà oltreché di carità – bisogna assumere sul piano dei doveri il loro costo, dunque il loro carico. Stesso caso per la sanità, le strade, la sicurezza, la difesa, ecc.
Il lavoro, invece, è sempre catalogato, deve essere sempre catalogato, tra i doveri. Intrinsecamente! A ciascuna delle sue affermazioni solenni bisogna sistematicamente assicurare il principio di responsabilità che ne determina la paternità sorgiva di assunzione. Peraltro, è proprio questa responsabilità che ne definisce la qualità di diritto oppure di dovere: non ci si può permettere il lusso di sbagliarsi su questo punto come invece è stato fatto, superficialmente e tragicamente, di maniera scervellata da più di un mezzo secolo. Tutte queste evidenze erano state scritte da più di un secolo da Chesterton quando diceva che si sarebbe dovuto combattere per “descrivere che i prati sono

Giorgio Vittadini, uno dei leader di Comunione e Liberazione, ha già chiarito molto bene, nel suo articolo de Il Sussidiadio del 6 febbraio, i fattori che permettono di sottrarre affermazioni banalmente generiche dalla dichiarazione a favore del diritto allo studio evocato dal nuovo numero uno dello Stato italiano, Mattarella. Quando si ascolta un cliché pronunciato da decine di anni, si è portati a crederlo una verità. Invece il lavoro è il primo dovere che anche il bambino padroneggia con l’intuizione spontanea: si potrebbe dire anche ontologicamente e naturale, già nei giochi molto, molto, seri. Cosa c’è, in effetti, di più universale del lavoro per ogni uomo? Anche i più fannulloni come me hanno il problema centrale del lavoro (da evitare, abitualmente): è per questo che io lavoro volontariamente – grazie a Dio per la mia buona salute – sempre tutti giorni in ufficio a più di 70 anni. E tutti sanno, se solo ci si pensa un attimo, che in fondo il proprio lavoro non è giustificato solo dalla remunerazione o dal profitto. Esso è gratuito, come la Chiesa lo ha sempre insegnato. C’è rimasta solo la concezione abbrutita e attualmente para-marxista d’attribuire i debiti alle generazioni future – dunque sindacale e politicistica – a credere che il lavoro è alienante, dunque da ridurre il più possibile. Non è un caso se la media europea reale dell’età pensionata (compreso quella dei prepensionati) è di 56 anni e qualche mese! Il lavoro, così non potrà mai essere un diritto: fortunatamente è ben più di un falso diritto, un dovere primario nel quale ogni uomo costruisce la sua identità, la sua densità e la sua libertà. Il professore a Milano, Del Debbio, è anche giunto pertinentemente a scrivere: “Il lavoro è l’essenza dell’uomo”. È per questo che il lavoro non potrà mai essere un diritto: intrinsecamente e teoreticamente. Così, se si presenta il lavoro come un diritto si pensa solo che fatalmente sarà lo Stato che deve assicurare questo sedicente privilegio con la sua ideologia immancabilmente statalista e liberticida al più alto livello. Salvo, naturalmente, come aiuto, molto temporariamente, per ogni possibile licenziato rimasto senza lavoro. Oppure se malato (da cui il diritto, almeno parzialmente, alle cure sanitarie

Ma soprattutto, l’idea che il lavoro possa essere un dirtto provoca come conseguenza devastatrice una doppia aberrazione diventata una sorta di banalità quotidiana, mostruosamente scontata.
Da un lato, questa idea nefasta e inumana secondo cui le attività produttive, quelle che relizzano anche il destino universale di ogni persona in quanto creatura obiettivamente appartenente a Dio nel Suo Piano eterno di Creazione, sono assunte – in prima ed ultima analisi – dallo Stato pseudo assistenziale e intervenzionista, arbitrariamente in tutti i campi.
Dall’altro lato, ancora più grave, il cosiddetto diritto al lavoro afferma implicitamente che la sola possibilità per ogni uomo sia l’attività subordinata, vale a dire l’impiego al servizio di… padroni che, soli, avrebbero l’obbligo naturale di creare lavoro. Così il Valore aggiunto alla creazione in cooperazione col Creatore avrebbe solo la disponibilità di una minima parte di umanità (i futuri padroni). I quali sono destinati, in sovrappiù, ad essere odiati da una immancabile lotta di classe da parte di lavoratori alienati. E che non sono mai educati a divenire, in primo luogo e come prima opzione, possibilmente imprenditori.
Esagerato? Che si pensi allora al fatto che dopo il fallimento confessato del comunismo, già da più di un quarto di secolo, i sindacati e i politicanti politicisti concepiscono i loro affiliati e amministrati in questa tragica visione nichilista propia al pensiero unico del nostro tempo.  

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