Senza genio, è sempre necessario “il corto d’autore”. Peraltro i rarissimi veri geni odiano l’inutilmente lungo. In musica, negli affari così come nella comunicazione moderna.

A margine della serata musicale offerta da amici a mia moglie per il suo compleanno, vorrei trattare rapidamente di un tema insolito: la durata dell’opera musicale, della sua importanza puramente quantitativa. Le due sinfonie in programma erano particolarmente adatte per la cosa: la quinta di Beethoven e la ottava di Shostackovitch. Di un po’ più di una mezz’ora quella del genio insuperato di Bonn e, di una durata quasi doppia, quella del compositore sovietico anche suo malgrado, sempre sotto l’occhio e l’orecchio dello stalinista ministro della “cultura comunista” Andrej Zdanof. Senza voler entrare nei paragoni impossibili (paragonare il paragonabile), o fare confronti analitici tra il nostro luminoso austro-tedesco e il russo di circostanza – che componeva più di un secolo dopo e in una società totalitaria -, voglio parlare del tempo di ascolto che una opera musicale impone contrariamente alla lettura di testi scritti. Oppure di fronte a sculture o a quadri dipinti… Come si può pensare, dopo un capolavoro come la quinta, di proporre non solamente l’ascolto, ma una nuova composizione, una sinfonia di una durata superiore ad un’ora?
È vero che la tendenza già con Bruckner, Mahler o anche con la serie delle opere, diciamo holliwoodiane, di Wagner a Bayreuth (non per la sua musica!), era il gigantismo della sua durata (anche per un solo dei suoi atti!). Il che li rende oggi praticamente inascoltabili per la generalità dei giovani (e non solo) che apprezzano solo pezzi di qualche minuto. E interpretati da band di quattro-cinque musicisti di fronte a una quantità di una ventina-trentina di volte (!) superiore (perdipiù economicamente inaccessibili, se non con le sovvenzioni dello Stato). Mozart, nella sua agilità abituale e Beethoven stesso non avrebbero mai osato tanto. Per essi il criterio artistico era già di ridurre, alleggerire, raccorciare, essenzializzare… L’umiltà dell’autore di talento, detto moderno, è di creare forme che intrinsecamente siano anche rispettose delle attuali capacità ricettive moderate di apprezzamento umano. E questo, allo stesso tempo, che siano fiduciose della loro forza espressiva e trascendente di verità (che esse veicolano).

Un grande novellista italiano, trasferito a Parigi negli anni ’70, Italo Calvino, aveva già trattato con un saggio intitolato “Lezioni americane” il problema della bellezza di un’opera artistica relatitivamente alla sua rapidità leggera come un volo di uccello. L’autore contemporaneo deve produrre opere corte, molto più corte che nel passato, e fuggire come la peste il pleonastico proprio del monumentale, fatalmente presuntuoso e spesso anche pomposo.
La complessità densa della vita moderna rende le capacità di accoglienza di una opera molto limitate. Misuro qui le parole per non rischiare di appiattire e rendere insignificante il mio discorso, soprattutto che mi espongo alla critica possibile, e non infondata, per cui è inconcepibile creare un’opera artistica a misura degli ascoltatori, soprattutto se abbrutiti. E particolarmente in una forma comunicativa basata sull’ascolto. Il mito dell’arte per tutti non è mai esistito.

In effetti, ascoltare una musica, una conferenza, una omelia, una presentazione commerciale, significa mettersi totalmente disponibili, con tutto il prorpio tempo e corpo, all’autore o al suo comunicatore. Questi deve sapere costantemente che, contrariamente, alle forme artistiche e tecniche proprie alla scrittura e al visuale non imposto, corre il rischio, già dai primi secondi, dell’abuso di fiducia dei suoi interlocutori. Questi hanno accordato il credito consentendogli tutta la loro disponibilità: in una epoca non di penuria, come nei secoli precedenti, ma di abbondanza anche eccedenteria dell’offerta.
Il tempo è dunque la più preziosa tra le cose che gli ascoltatori offrono al conferenziere, all’autore musicale. Ma, si sa, ogni credito si paga con interessi proporzionali. Le chiese sempre più vuote, per esempio, testimoniano anche di un clero che ha molto abusato, e a lungo, dei suoi fedeli.E, certamente, non sul piano sessuale come viene detto troppo spesso. La cosa continua. Il papa Ratzinger (Benedetto XVI), commentando il contenuto e la durata delle omelie logorreiche, faceva… l’elogio dello Spirito Santo, che permette quantomeno alla Chiesa di continuare ad esitere. Miracolo!

Autori come il talentuoso Shostacovitch, nel loro tentativo obiettivo e, magrado tutto, di soddisfare nel colossale retorico funzionari sovietici del minculpop, gli stalinisti del famoso ministero della cultura popolare, hanno quasi perso ogni chance di rapprensentare tutta la bellezza possibile della loro musica. E questo, soprattutto di fronte alle cento variazioni di Beethoven sulle “Quattro note del destino” della sua quinta, realizzate, perdpiù in una durata praticamente a metà dell’ottava russa.
Tutto il talento possibile, nel contesto degli orrori del nichilismo attuale e del ventesimo secolo, è di sfuggire alle catene, anche invisibili, dei censori statalisti. Questi censori son oggi volontari e liberi.
E, attenzione, non è detto che i molti e immancabili applausi finali non siano l’espressione di una colossale noia troppo repressa durante una ora e quattro minuti, pieni di dissonanze!

 

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