Su indicazione del prete più giussaniano, Gabriele Mangiarotti, ho letto la “Lettera al duca di Norfolk” di John Henry Newman, l’anglicano più illustre dell’ottocento convertito nel 1845 al cattolicesimo. Ho così contemplato l’apologia più grandiosa del cristianesimo romano che aveva entusiasmato il sacerdote milanese fedele nella Chiesa del sempre più tradito don Giussani.

Avevo già divorato un libro, nel 2006, sul più prestigioso e divinamente polemico Oxfordman,  dopo aver acquistato al Meeting di Rimini la sua autobiografia in italiano appena pubblicata.
Avevo così scoperto che il neo-convertito e massimamente cattolico già più che quarantenne Newman, appena dopo essere giunto in Italia nella sua Chiesa praticamente da sempre agognata,  avesse ormai accettato di non essere destinato al martirio ma alla semplice e permanente santità. Già nel suo “Rischio educativo” del 1977, don Luigi Giussani notava (a proposito di Newman) che ogni “conversione non è  altro che la scoperta più approfondita di quello che già prima veramente si voleva“. La sua ricerca vocazionale, cui si era votato generosamente da pre-adolescente, gliel’aveva suggerito molto precocemente. Era comunque attaccato da molti anglicani, suoi ex-perduti ammiratori a causa del suo presunto tradimento alla loro Chiesa. Essa era diventata protestante e immorale dopo la ribellione assurda del loro re Enrico VIII, edonista e assassino, anche di due delle otto sue mogli. La sua deriva era stata stigmatizzata fino al martirio per decapitazione da Thomas Moore, lui sì martire, fatto poi anche santo. Ma Newman era tenuto sempre come uno straniero marginale pure dai molto corti e spocchiosi prelati così spesso imperanti nel clero romano: invano idealmente abbracciati nella loro religione. I quali tentarono globalmente di spezzargli la schiena nelle indegne e surreali corvée di lucidare i pavimenti di Santa Croce a Firenze. Andava verso i suoi cinquant’anni, come grandissimo e celebrato più illustre teologo britannico di tutti i tempi, trattato perlopiù nella sua intima Grazia come un eterno penitente!
In ogni caso, mai si lamentò di dover dedicare tutta la sua esistenza alla vocazione più propria del cattolicesimo ecclesiale, nella sua tipica ricerca di santità pubblica e personale. Oltretutto praticata nella sua nuova vita realmente molto solitaria, al più alto livello prodigioso di produzione catechetica, oltre che filosofica e teologica, sempre in naturalezza e miracolosamente misericordiosa.

È stata così necessaria l’opera di un altrettanto genio e Papa cattolico come Leone XIII, perché tutto il valore storico e soprattutto religioso di Newman fosse riconosciuto e celebrato.
Così attraverso la nomina a cardinale appena poco prima della sua morte, nel 1890, a ottantanove anni che, almeno idealmente, giustizia terrena fi fatta! Un caso simile si è avuto solo col cardinale belga Julien Ries, “premiato”, col berretto cardinalizio a più di 90 anni, come tardivo rimedio, dal dimissionario Papa Benedetto XVI (dopo una vita di alto e umile servizio scientifico e pedagogico: era soprattutto un valentissimo antropologo delle religioni molto stimato dai suoi pari)…  Peraltro, ci son voluti quasi centotrent’anni  prima che tutta la santità del grandissimo Newman fosse proclamata a Roma nel 2019, non molti mesi fa. La grande Chiesa, anche se peccatrice, non è mai demagogica rispetto alla sua politica soprannaturale…
L’occasione del libro ricordato e consigliato alla lettura dal “Donga” – così è chiamato affettuosamente dai suoi ammirati seguaci – è stata la pubblicazione in Gran Bretagna di un panphlet  redatto da un vecchio amico di Newman che ormai il futuro beato chiamava solo con il diventato epiteto molto distaccato “Signor Gladstone”. Il quale, all’occasione della clamorosa conversione dell’ex-amico, pubblicò un feroce testo molto critico di completa stroncatura della radicale scelta newmanniana. Affrontando, in tal modo, il problema dal punto di vista della mancata e impossibile, a suo giudizio, “libertà di coscienza”. La tesi di Gladstone era molto semplice: siccome i cattolici devono, per fede e per dogma, obbedire al Papa, che in sovrappiù era allora diventato recentemente infallibile (ma lo era sempre stato, invero solo in certe rare condizioni solenni!) come stabilito canonicamente nell’allora recente Concilio Vaticano I°, del 1869. I cattolici, non possono essere –    sosteneva Gladstone – nemmeno cittadini sottoposti al loro stesso Stato, in quanto realmente appartenenti ad un liberamente scelto “organismo straniero”, lo Stato del Vaticano nel qualcaso…
La cosa implicava che gli stessi cattolici non disponessero, di fatto, della “libertà e della coscienza”… Si trattava quindi della tesi (oggi ancor maggiormente in vigore, dappertutto su tutto il pianeta Terra, anche se ormai come considerazione molto implicita in quanto acquisita. In tutti gli Stati moderni, naturalmente mai giunti a così tanto statalismo. Detti Stati infatti, non solo affermano la loro prevalenza sulla Chiesa cattolica e sulle Leggi di Dio, ma ne negano anche l’esistenza legittima, soprattutto sul piano pubblico!

Il libro-lettera in questione è sottotitolato “Coscienza e Libertà” e pubblicato in più di 450 pagine, composto di almeno altri due accuratissimi apparati critici, oltre alle duecento della “Lettera” stessa e da una “Introduzione” di un altro centinaio  di cartelle curate tutte da Valentino Gambi…
Tutta la “Lettera” di Newman è impostata e riprende “ab ovo“, dalla sua origine, la nozione sia di libertà che di coscienza, contestandone meticolosamente, punto per punto, il significato di diritto-dovere della distinzione semantica dei due concetti. A partire dunque dalla definizione di “legge naturale” e – diremmo pertinentemente oggi – di ontologia intrinseca. Cioè di corrispondenza tra la coscienza e l’obbedienza dovuta come principio religioso e cattolico di civiltà, anche indipendentemente dal dogma dell’infallibilità. L'”impareggiabile controversista” convertito (p. 12) dispiega tutta la sua inarrivabile abilità dialettica di sterminata cultura logico-filosofica e teologica, per annientare in piena legittimità tutte le critiche (nessuna esclusa) di condanna del Gladstone, sia esplicite che implicite o nascoste. Tutte queste, sotto le innumerevoli argomentazioni ricondotte nella loro contestualità sempre pertinente di Newman, avevano fatto evaporare rapidamente il loro invero superficiale e pretestuoso impianto critico di falsa stroncatura. Il cui orizzonte – va da sé – poteva solo limitarsi alla cultura occidentale gnostica, nella fattispecie, al politicismo inevitabilmente epidermico, banale e riduttivo. Così, passo dopo passo, con una precisione millimetrica e, in sovrappiù, con una stilistica sublime ed efficace, tutta la profonda teologia ecclesiale veniva ripercorsa e ricostruita da Newman con una insuperabile e totalizzante sapienza.
Già qui ben si capisce l’interesse di don Mangiarotti e il suo invito a leggere il libro-lettera in questione, data l’estrema attualità rispetto anche alla crisi della Chiesa cattolica oggi.
Oltre a segnalare – Newman assicura  – “all’amico di un tempo, che non ho mai esitato, neppure per un solo istante nella convinzione che, nella mia propria coscienza, ho sentita essere divina“, Newman assicura e che la sua fede nella Chiesa romana “non possa affievolire la nuova fedeltà alla regina Vittoria” (p. 146). E nello stesso capitolo, afferma lo stesso atteggiamento nei confronti della “fedeltà al potere civile” (p.147). Poi inizia ad attaccare (per difendersi) con gli argomenti riguardanti quelli che oggi definiremmo relativi allo statalismo: “Quando mai infatti è avvenuto nei tempi antichi che lo Stato non si sia mostrato geloso della Chiesa?”. Lo gnosticismo, infatti, ha sempre brigato per dichiarare il potere di Cesare (lo Stato) superiore e subordinante a quello della Chiesa (di Dio). Ma Newman, malgrado le posizioni estremiste degli  ultramontani, cioè dei seguaci pedissequi papisti e non petrini, seguiva piuttosto la metafora di cui molto si parlava nel clima culturale dell’epoca relativo al Sillabo, all’Infallibilità e al dogma della Immacolata Concezione: “La Chiesa non è unita allo Stato come Israele all’Egitto, bensì come una ‘moglie’ credente a un ‘marito’ che ha minacciato di apostasia; e come si comporterebbe una moglie cristiana che deve battersi ancora per salvare non tanto se stessa, ma lo Stato dal crimine del ‘divorzio’” (p. 157). In ogni caso, a scanso di possibili equivoci, Newman cita esplicitamente a riferimento i due classici dell’ortodossia cattolica: sant’Agostino e san Tommaso e, soprattutto, la legge della natura e della coscienza. Di quest’ultima egli mette in evidenza che “non è mai lecito agire contro i dettami della propria coscienza come afferma il quarto Concilio Lateranense“…
Dove la coscienza è “la voce di Dio” e non, secondo la moda nichilista mondana, “una creazione dell’uomo”. (p. 218)
Si comprendono qui come le posizioni della Chiesa anglicana, dunque protestante allora da tre secoli, come quelle gnostiche e moderniste tra le posizioni borghesi o miscredenti, potessero essere spiazzate completamente e sconvolte in rapporto a categorie metafisiche assolutamente estranee al banale materialismo riduttivo del politicismo più elementare e alienato. Prima ancora dell’analisi dettagliatissima del problema così aperto, Gladstone – come del resto tutti i mondialisti della nostra epoca – sono già persi nel dibattito per loro troppo complicato o colto e la loro preoccupazione è di sparire di nuovo nell’immanenza, anche se abbrutita dal classico e cosiddetto “concreto” dei questioni. È quanto l’arcivescovo Viganò ha appena scritto al presidente americano Trump che si spera abbia capito, o almeno intuito il tenore del suo interlocutore. Lui il più vicino degli uomini politici vicino al centro oggi del problema umano e sempre trascendente. Compresi tutti o quasi i leader anglosassoni occidentali attuali o europei, più o meno in gioco con il movimento oggettivo del mondialismo immanente e diabolico nella sua totale devastazione umana.

Magnifica e corroborante, anti-masochista e contro il difetto ricorrente tipicamente italiano, è indirettamente l’apologetica critica di Newman, il più acuto pensatore moderno, nei confronti del molto deprezzato pensiero italiano nella storia occidentale nella sua civiltà cristiana.
Un merito indiscutibile dell’attuale filosofo Cacciari, indipendentemente dal giudizio sempre parziale sulla sua persona come grande pensatore contemporaneo, è quello di voler rivalutare tutta la storia e l’importanza mondiale del pensiero italiano, con la sua peculiarità e il suo valore intrinseco nei secoli! Compresa l’opposizione alla tendenza odiosamente esterofila e dissennatamente coltivata e da lui molto particolarmente avversata. Basti pensare ai risultati, persino della filosofia tedesca, solo ermeneutici e sostanzialmente ben fallimentari di tutta la sua ricerca approdata, anche col più grande pensatore comunemente celebrato in tutto il secolo scorso e finanche attualmente, Martin Heidegger. Il quale, da massimo nichilista del pensiero acrobatico e speculativo, non si è mai volutamente “sbattezzare” (da cattolico tedesco, secondo una frequente consuetudine germanica!). Egli, si sa, si inginocchiava nelle cappelle dedicate alla Madonna (!) che incontrava nelle sue lunghe passeggiate nella Foresta nera, tra lo sbigottimento dei suoi ammiratori, seguaci incondizionati e, ovviamente, molto spesso atei. Anche dal punto di vista teoretico, egli  era giunto come apice del suo pensiero conclusivo, perdipiù alla fine della sua vita, ad invocare il famoso “intervento di un Dio” per veramente affrontare il problema che la filosofia laica e razionalistica degli ultimi secoli, non solo la sua, non aveva saputo e non poteva veramente affrontare, in più di mezzo millennio!
L’accurata e costante sopravvalutazione del pensiero straniero, particolarmente in Italia, dà la reale valutazione ben misurata del valore e del genio di un Paese. Non solo l’ideologia tedesca, ma pure I’analitica pragmatica anglosassone, non hanno prodotto, infine, che nichilismo e relativismo.
I criteri utilizzati di norma sono sempre riferiti ai sistemi del soggettivismo dei valori realmente dominanti e immancabilmente sempre parziali, quindi erronei o inadeguati al discernimento di quello assoluto, tenuto come sommo e sublime modello virtuale di riferimento.
Questo, vale a dire la visione religiosa cattolica metafisica e salvifica, sebbene piuttosto infiltrata dalle ideologie correnti moderniste e nichiliste, sono ben disponibili sui mercati malgrado le loro dimensioni minoritarie. Infatti, non esistono più Paesi o popoli referenziali: ogni nazione è divisa al suo interno tra le varie influenze di civiltà per cui il problema della salvezza generale e personale può essere trattato solo con la scelta fondata sulla libertà cosciente individuale e culturale.     

 Ci voleva un genio inglese (sempre molto più raro di quanto non si celebri), ex-leader indiscusso anglicano a Oxford, per riabilitare la suprema grandezza della Chiesa cattolica: vittima del  tritacarne gnostico della filosofia razionalista e della teologia protestante degli ultimi cinque secoli.
Tutta l’inconsistenza teoretica e veritativa del modernismo anti-cattolico viene posto dapprima da Newman in piena luce, in ogni sua anche non apparente contraddizione, per poi essere totalmente demolita: con la tranquilla evidenza dell’obiettività razionale utilizzata dal coltissimo “oratoriano”, docente universitario e leader dell’omonimo e dominante movimento ad Oxford.
La sapienza culturale e l’intelligenza di Newman sono state anche accostate a quelle dell’imparagonabile Paolo di Tarso che, non avendo mai incontrato Gesù, ma solo da lui folgorato sulla via di Damasco a cavallo, ha “inventato” tutto il cristianesimo per fede e per ragione!
Qui si pone il problema dell’interrogativo essenziale su cosa è realmente l’intelligenza umana.
Oltre alle scoperte dei misteri della vita e dell’esistenza financo tecnica dell’universo, essa è implacabilmente misurata dalla capacità umile e supremamente penetrante della capacità di riconoscere il Mistero globale ed esplicito della misconosciuta eterna ed unica Vérità. Del resto già  rivelata, davanti al quale l’uomo è posto, fin dalla sua nascita. Mistero questo, da cui dipendono tutti gli altri relativi allo scibile umano e di cui l’umanità ed ogni uomo scoprono, anche implicitamente col proprio lavoro, le sue parziali e provvisorie verità derivate. È questo il narcisismo, dissennatamente auto-realizzativo ed illusoriamente autonomo o falsamente onnipotente, a dannarlo nell’infruttuosa e sua parzialissima ricerca imperitura e solo umana! Mentre il compimento del suo destino consiste semplicemente nel partenariato minoritario, realmente anche infimo, con l’infinita e libera amorevolezza di Dio a determinare il cosiddetto Progresso cosmico. Ecco spiegato il dubbio inesauribile e inesplicabile di fronte ai seguaci atei, sempre sbalorditi della coerenza di Heidegger, il più intelligente dei pensatori. Soprattutto nei confronti del suo ginocchio piegato davanti alla maestà infinita di una divenuta famosa ragazzina Assunta in Cielo, in una piccola cappella durante una delle passeggiate più colte e spirituali della storia! Così Newman, anche lavando molto fattualmente e forse ingiustamente il pavimento della chiesa forse più bella di Firenze – non  a caso dedicata alla Santa Croce? – faceva prova della realizzazione di questo Mistero che avvolge tutta la storia e ogni uomo. Don Gabriele Mangiarotti, dal suo convento in clausura di Pietrarubbia quasi sperso sull’Appennino marchigiano vicino a San Marino, lo condivide pienamente con l’ex-anglicano. Fino a chiedere di almeno leggerne l’episodio forse più espressivo che il beato Newman ci ha tramandato con questa ben risolutiva “Lettera”.

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