La vera utilità della prima frase.

A condizione che non sia nichilista, relativista o laicista.

 “Ma perché scrivono? “: è la celebre frase di uno scrittore (e critico letterario) cattolico italiano, Carlo Bo (1911-2001). La domanda è apparsa molto pertinente con l’ondata oceanica di libri pubblicati nella seconda metà del secolo scorso. Ondata di libri ma non di lettori critici e demassificati. Ogni anno in Europa, si possono contare per decine di migliaia (!) i titoli di romanzi – per limitarci alla sola narrativa – che vengono stampati: nella disperazione progressiva degli editori che fanno sempre fatica a mantenere l’equilibrio economico delle loro attività. Essi contano, ormai, su colpi di fortuna, con possibili e sistematicamente imprevedibili “best sellers” per compensare le perdite, generalmente abituali, della quasi totalità dei loro cataloghi. Per far quadrare i budget, devono anche ricorrere a parecchia pubblicità, a una distribuzione molto costosa, a tirature limitate (in centinaia, non migliaia!), alla prevendita ambientale e al contributo economico del conto d’autore… Come allora selezionare e assicurare le pubblicazioni, soprattutto di valore? La domanda di Bo non può che continuare a riperquotersi.

Come al solito questo week end, leggo a casa gli articoli (e i libri) raccolti fondamentalmente in ufficio, dopo il lavoro. Così sono incappato in un titolo che mi ha subito colpito. L’occasione è stata uno dei numerosi festival di letteratura – quello di Mantova, altrettanto promozionale per le vendite quanto altri premi e palmarès – dove il giornalista di turno, detto letterario, proclama di essere certo (frutto, sembra, anche di altre ricerche) che “gli autori sono impotenti davanti all’atrocità del male jihadista”.
In realtà, la cosa non è per niente sorprendente. Gli scrittori, per la maggior parte (quasi la totalità), sono conformisticamente sotto le radiazioni del nichilismo, relativismo e del laicismo. Con un’aggravante di peso: il loro talento! E, siccome la loro cultura costituisce generalmente la fonte o l’espressione della crisi ideologica e antropologica che è alla base dei fenomeni contemporanei (compreso quello jihadista giunto pure a questi livelli di violenza bruta!), questi non possono che constatare puntualmente la loro intrinseca impotenza. In più, la letteratura e la poesia si sono sempre dichiarate, anche se con understatement, piuttosto “inutili”. Nel qualcaso, in rapporto alla cruenta e inaudita attualità terrorista, perché la difesa della vita, della libertà e della civiltà è anche un problema di determinazione militare. Bisogna fermare e anche distruggere questi barbari abbrutiti, tagliagole oltre che stupratori e schiavisti!

I migliori critici letterari, rarissimi come Carlo Bo o il newyorkese Harold Bloom – il quale ha anche creato un parametro culturale esigente e selettivo – il “canone Bloom”, per l’appunto – sono molto severi di fronte a tutti questi autori innumerevoli e poco consapevoli. Allegramente, o tristemente, essi cercano di descrivere, con il talento immaginativo di cui più o meno dispongono, l’universalità della vita contemporanea: vale a dire lo scopo forse principale della poesia e della letteratura. Come pure dei saggi. I rari critici cattolici, che per definizione hanno anche una cultura globalmente salvifica fondata su una visione irriducibilmente escatologica, emettono in più un giudizio sui frutti di queste moltitudini di autori, allineati nel riduzionismo, di tipo non solamente estetico e parcellizzato ma, giustamente, a partire dal senso umano generale, trascendente e completo.
In effetti, il perché riferito iniziale posto dal nostro critico Bo dovrebbe essere il primo interrogativo, preliminare, di qualsiasi autore. Dopo averci ben profondamente riflettuto, e solo dopo, questi potrà – forse – scrivere legittimamente la sua prima frase.
A condizione, però, che non sia nichilista, relativista o laicista, i tre mali della nostra crisi contemporanea.

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